14.11.2024
Il metodo di ragionamento da seguire per rispondere alle domande ricorrenti sull’attribuzione delle responsabilità penali a seguito di infortuni o malattie professionali: i principi del codice penale schematizzati con esempi concreti.
Una domanda che viene spesso rivolta a coloro che si occupano di salute e sicurezza sul lavoro sotto il profilo giuridico è: “se in una data situazione (che viene descritta nel dettaglio) e a condizioni date si dovesse verificare un infortunio o se, successivamente, dovesse insorgere una malattia professionale, chi risponderebbe penalmente?”
Fermo restando che si tratta di un ambito nel quale è impossibile dare risposte assolute e categoriche, vorrei cercare qui di illustrare con un linguaggio comprensibile anche ai non giuristi (e senza alcuna pretesa di essere esaustiva) quale sia il metodo di ragionamento che deve guidarci nel tentare di dare una risposta di volta in volta a quesiti di tale tenore.
Il punto di partenza è, anzitutto, rappresentato dallo “schema” che ci viene fornito dalle due norme del codice penale che prevedono i reati che, nella stragrande maggioranza dei casi, si applicano al nostro settore in caso di infortunio o malattia professionale (omicidio colposo e lesioni personali colpose ai sensi rispettivamente degli artt.589 e 590 c.p.): “chiunque cagiona per colpa” un evento (lesione o decesso) è punito.
La parola “chiunque”, anzitutto, ci dice che è possibile che, in caso di reati di evento, possa essere responsabile anche una persona che non appartenga alla rosa dei soggetti per i quali il D.Lgs.81/08 prevede i cosiddetti “reati propri”, quali il datore di lavoro, il dirigente, il preposto, il lavoratore, il medico competente, i progettisti, fabbricanti, fornitori, installatori, i lavoratori autonomi, i coordinatori di cantiere etc.
Il concetto di “chiunque” ricomprende ovviamente anche i soggetti su elencati ma segnala che non si esaurisce in essi l’elenco di coloro che possono rispondere penalmente a seguito di un infortunio o di una malattia professionale.
Infatti sappiamo, a mero titolo di esempio, che a seguito di infortunio o di malattia professionale la responsabilità penale può essere ricondotta anche ad un Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione, ad un consulente esterno, ad un medico di pronto soccorso, ad un auditor esterno, al proprietario di un capannone industriale etc. etc., a patto ovviamente che tali soggetti siano inseriti nella catena causale che ha portato all’evento (v. “cagiona”) e che il loro comportamento sia stato caratterizzato da rimproverabilità per violazione delle norme giuridiche o delle regole sociali (v. “per colpa”).
Il che ci porta dritti a trattare gli altri elementi costitutivi dei reati su ricordati: ovvero quello del rapporto di causalità (“cagiona”) e quello della colpa (“per colpa”), oltre ovviamente all’elemento rappresentato dall’evento-lesione/decesso, sul quale ultimo qui non serve soffermarsi.
Partiamo dal tema della causa, la quale può consistere in una azione (se è stato violato un divieto) o in un’omissione (se è stato violato un obbligo giuridico).
Secondo il codice penale, infatti, “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione.” (Art.40 c.1 c.p.)
Penalisticamente esiste un’omissione solo se a monte vi era un vero e proprio obbligo giuridico (cioè previsto dal diritto nel suo complesso): infatti, secondo il codice penale, “non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo.” (Art.40 c.2 c.p., cosiddetta “clausola di equivalenza”.)
Mi soffermo qualche momento sul concetto di omissione dal momento che, essendo la legislazione di salute e sicurezza per lo più costruita ad “obblighi” (di fare, di attivarsi) più che a divieti, la responsabilità che si configura per la violazione delle norme da essa previste è nella maggior parte dei casi di natura omissiva e cioè legata al non aver fatto qualcosa che si doveva fare.
Dunque, si diceva che affinché si possa parlare di omissione deve esservi a monte un obbligo giuridico, cioè previsto dal diritto.
Tale obbligo giuridico - la cui violazione conduce ad un’omissione - può non essere necessariamente di natura penale: esso può essere di natura civile (es. violazione dell’art.2087 del c.c.), penale (es. la commissione di un reato contravvenzionale previsto dal D.Lgs.81/08) o amministrativa (es. una violazione del codice della strada che causi un infortunio sul lavoro).
Ma la domanda centrale a questo punto del discorso è: a quali condizioni un’azione o un’omissione potrà costituire la causa di un evento, al punto tale da integrare l’elemento costitutivo del “chiunque cagiona”?
Ad esempio, se è stato accertato che il datore di lavoro Mario Rossi non ha erogato la formazione al lavoratore il quale poi si è infortunato, come si fa a verificare se quella omissione sia stata - in termini tecnico-giuridici - la causa dell’evento?
Si tratta di un quesito che dobbiamo necessariamente porci, dal momento che, a seguito di un infortunio o di una malattia professionale, possono essere riscontrate diverse violazioni commesse dai vari soggetti coinvolti, ma non necessariamente queste ultime assurgeranno tutte a vere e proprie “cause” dell’evento.
La risposta alla domanda formulata sopra dunque è la seguente: occorrerà verificare - nell’esempio che abbiamo fatto - se la mancata formazione in quello specifico caso (e quindi in concreto) sia stata l’antecedente indispensabile per il verificarsi dell’evento e cioè se abbia rappresentato l’antefatto senza il quale quell’infortunio non si sarebbe verificato (non entriamo qui nel merito della legge di copertura e dell’elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica, che ci condurrebbe troppo lontano e che in questo contesto non è strettamente necessario trattare).
Detto in parole povere, occorrerà verificare se l’omessa formazione (A) sia stata la conditio sine qua non del prodursi dell’evento (B).
Ma come si fa - ancora una volta - a verificare ciò?
Dobbiamo eliminare A (a posteriori dell’evento) nella nostra mente, applicando il cosiddetto procedimento di eliminazione mentale o giudizio controfattuale: un’azione o un’omissione è conditio sine qua non di un evento se - a posteriori dello stesso - non può essere mentalmente eliminata senza che l’evento stesso venga meno.
Immaginiamo - nell’esempio che abbiamo fatto - di ipotizzare a posteriori che la mancata formazione non vi sia stata, sostituendola con l’avvenuta formazione: l’evento-infortunio si sarebbe verificato lo stesso o no?
In pratica, se eliminando mentalmente l’omissione A (e quindi sostituendola con l’azione doverosa corrispondente) viene meno di conseguenza anche l’infortunio B, allora A è stata causa di B.
Viceversa, se eliminando mentalmente l’omissione A (e quindi sostituendola con l’azione doverosa corrispondente), l’infortunio B resta in piedi, A non è stata causa di B e bisognerà verificare quale sia stata la causa dell’evento.
Nel caso delle malattie professionali, poi, ci si dovrà anche domandare se, eliminando mentalmente l’omissione, la malattia sarebbe insorta in epoca successiva a quella in cui si è effettivamente manifestata o con minore intensità lesiva.
Chiarito questo punto fondamentale, possiamo ancora chiederci: è possibile che vi sia più di una causa?
La risposta è sì: affinché un’azione o un’omissione assurga a causa, è sufficiente che rappresenti una delle condizioni che concorrono a produrre l’evento nei termini su indicati, dal momento che è parificata l’attitudine causale di tutti gli antecedenti necessari all’evento stesso.
Il codice penale prevede infatti che “il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l’azione od omissione e l’evento” (art.41 c.1 c.p.).
Nell’esempio che abbiamo fatto prima, è possibile ad esempio che la mancata formazione del lavoratore da parte del datore di lavoro Mario Rossi sia stata causa dell’evento (causa n.1) accanto alla mancata valutazione dei rischi da parte sua (causa n.2) e alla mancata sorveglianza sanitaria da parte del medico competente (causa n.3); tutto ciò a condizione ovviamente che risulti accertato che tali omissioni siano state tutte degli antecedenti necessari dell’evento sulla base del procedimento di eliminazione mentale.
Viceversa, può anche accadere che l’esistenza del nesso di causalità fra l’azione o l’omissione posta in essere da un soggetto e l’evento-lesione/decesso venga esclusa per il fatto che una causa sopravvenuta abbia interrotto il rapporto di causalità stesso.
Infatti secondo il codice penale “le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento.” (art.41 c.2 primo periodo c.p.).
Pensiamo, ad esempio, ai casi (per la verità quantitativamente tutt’altro che frequenti) in cui il comportamento del lavoratore viene qualificato imprevedibile, esorbitante dalla sfera di rischio del soggetto garante e quindi tale da interrompere il nesso di causalità tra un’azione o un’omissione del datore di lavoro (o del dirigente o del preposto) - pur accertata - e l’evento.
A questo punto, l’ulteriore domanda - anche in questo caso fondamentale - che occorre porsi è la seguente: è sufficiente che l’azione o l’omissione di Mario Rossi si ponga come causa dell’infortunio o della malattia professionale affinché a questo soggetto venga ricondotta una responsabilità penale?
Ovvero: è sufficiente che Mario Rossi in termini attivi (per azione) od omissivi (per omissione) si inserisca nella “catena causale” che ha portato all’evento affinché possa essere responsabile penalmente?
Per rispondere a questa domanda non dobbiamo fare altro che tornare allo schema dei reati da cui siamo partiti: “chiunque cagiona per colpa”.
Serve anche che venga accertata la colpa (e cioè l’elemento psicologico o soggettivo del reato).
Quest’ultima è rappresentata da “negligenza, imprudenza o imperizia” (colpa cosiddetta “generica”, che non ha una fonte giuridica ma trova la sua fonte nell’esperienza della vita sociale) o, come nella maggior parte dei casi nel nostro settore che conosce una fitta regolamentazione, da “inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline” (colpa detta “specifica”, di fonte giuridica).
Risponde, ad esempio, a titolo di colpa specifica il dirigente che non abbia adottato le misure antincendio che rientravano nel suo potere gestionale e nel suo incarico e che quindi, violando l’art.18 c.1 lett.t) del D.Lgs.81/08, abbia causato un infortunio sul lavoro ad uno o più lavoratori.
Concludiamo questo breve contributo con un paio di riflessioni e un esempio applicativo finale.
La prima è che, alla luce di quanto descritto finora, risulta chiaro quale rilevanza rivesta in materia di salute e sicurezza il tema della corretta individuazione delle posizioni di garanzia e quello - ad esso correlato - dei poteri-obblighi nel settore della prevenzione sui luoghi di lavoro, in relazione proprio ai temi della causalità e della colpa.
La seconda è che tutto quanto detto trova il suo naturale approfondimento nell’analisi degli orientamenti giurisprudenziali della Cassazione Penale sulle specifiche responsabilità dei vari soggetti coinvolti a diverso titolo nella produzione di infortuni sul lavoro o malattie professionali ( si rinvia su questo agli altri contributi pubblicati su Puntosicuro).
A corredo di questo articolo, infine, per un esempio di applicazione da parte della giurisprudenza dei principi su analizzati, propongo un breve estratto di una sentenza di Cassazione Penale di pochi mesi fa in tema di causalità:
“In tema di reati colposi, per l’esistenza del nesso di causa, in base al disposto degli artt.40 e 41 cod. pen., occorrono due elementi: il primo, positivo, secondo il quale la condotta umana deve aver posto una condizione dell’evento; il secondo, negativo, per cui il risultato non deve essere conseguenza dell’intervento di decorsi causali alternativi di per sé soli sufficienti a determinare l’evento.
Nel caso di specie, la Corte di Appello si è posta il problema di verificare se, dopo che il lavoratore era caduto dal trabattello in quanto il ricorrente non lo aveva dotato del dispositivo anticaduta, l’evento morte fosse da ricondurre alla caduta e, dunque, alla condotta colposa del datore di lavoro, ovvero ad un decorso causale diverso ed indipendente. Essendo stato ipotizzato dai consulenti della difesa nel corso del processo di primo grado che la morte fosse stata determinata da una patologia preesistente del F.F., i giudici hanno correttamente fatto ricorso allo strumento della perizia, venendo in rilievo l’accertamento di fatti che esulino dalle conoscenze, per così dire, “ordinarie” ma che richiedano specifiche competenze tecniche o scientifiche. La corte, dunque, si è confrontata in maniera corretta con il sapere scientifico introdotto nel processo e, a fronte delle divergenze fra le conclusioni dei consulenti nominati nel dibattimento di primo grado, ha disposto perizia in conformità del principio per cui essa rappresenta un indispensabile strumento probatorio”. (Cassazione Penale, Sez.IV, 29 maggio 2024 n.21048).
Anna Guardavilla
Dottore in Giurisprudenza specializzata nelle tematiche normative e giurisprudenziali relative alla salute e sicurezza sul lavoro
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