06.09.2021
Il medico competente è titolare di una propria sfera di competenza e non deve limitarsi ad un ruolo meramente passivo, ma deve dedicarsi rispetto al datore di lavoro ad un’attività propositiva e informativa in relazione al proprio ambito professionale.
La sentenza della Corte di Cassazione in commento riguarda l’attività del medico competente in materia di salute e sicurezza sul lavoro. In essa vengono riportati gli obblighi posti a carico del medico competente nelle disposizioni di cui al D. Lgs. n. 81/2008 e richiamate delle precedenti espressioni della stessa Corte. Il medico competente, ha ribadito la suprema Corte, è titolare di una propria sfera di competenza; è un garante a titolo originario e non derivato e peraltro ha l’obbligo di collaborare con il datore di lavoro il cui inadempimento integra il reato di cui all’art. 25, comma 1, lett. a) del D. Lgs. n. 81/2008. Lo stesso non deve limitarsi ad un ruolo meramente passivo, ma deve dedicarsi ad un’attività propositiva e informativa in relazione al proprio ambito professionale.
Il caso sottoposto all’esame della Corte di Cassazione aveva riguardato un infermiere professionale che, nell’effettuare un prelievo di sangue venoso, era stato accidentalmente punto dall’ago utilizzato contraendo il virus dell’epatite da cui era affetto una paziente il che aveva portato alla necessità di una lunga cura farmacologica. Il fatto era stato considerato dal Tribunale e dalla Corte di Appello come una lesione personale grave della quale doveva rispondere a titolo colposo il medico competente della ASL che non aveva prevista la presenza di un rischio biologico.
La suprema Corte chiamata a decidere sul ricorso presentato dal medico, nel giudicare il ricorso infondato, ha precisato che il concetto di malattia ai sensi e agli effetti dell’art. 582 del codice penale vuole che la relativa nozione non comprenda tutte le alterazioni di natura anatomica, che possono anche mancare, bensì solo quelle da cui deriva una limitazione funzionale o un significativo processo patologico o l’aggravamento di esso ovvero una compromissione delle funzioni dell’organismo, anche non definitiva, ma comunque significativa. La lesione personale, ha aggiunto la stessa Corte, deve considerarsi grave se l’incapacità ad attendere alle ordinarie occupazioni perduri oltre il quarantesimo giorno, fornendo a proposito un indirizzo in base al quale nella nozione di malattia è da comprendere anche il periodo di convalescenza o quello di riposo che è dipeso dalla stessa.
Il fatto e l’iter giudiziario.
La Corte di appello ha confermato la pronuncia emessa dal Tribunale nei confronti di un medico competente, giudicato responsabile del reato di cui all’art. 590 c.p. in danno di un infermiere professionale e condannato alla pena ritenuta equa. Secondo l’accertamento condotto nei gradi di merito, l’infermiere professionale aveva contratto presso un ospedale il virus dell’epatite nello svolgimento della propria attività professionale. Era, infatti, accaduto che, mentre effettuava un prelievo di sangue venoso su una paziente affetta da HVC e HVB, a causa di un improvviso movimento della mano di quest’ultima, era stato accidentalmente punto dall’ago che stava utilizzando nell’arteria radiale del polso sinistro.
Ad avviso dei giudici di merito il fatto era accaduto perché l’infermiere aveva usato un ago cannula sprovvisto di dispositivo di sicurezza e la malattia contratta dal lavoratore era da attribuirsi al medico competente dell’ASL che aveva omesso di collaborare con il datore di lavoro nella valutazione del rischio biologico rappresentato, per il personale sanitario addetto all’U.O. di P.S. del presidio ospedaliero, anche dalla possibile contrazione di patologie infettive per via ematica a causa di punture e ferite con aghi e taglienti contaminati da sangue infetto.
La Corte di appello, in particolare, ribadendo il giudizio del Tribunale, aveva ritenuto accertato che la malattia era stata contratta dall’infermiere in occasione del prelievo ematico eseguito sulla paziente infetta; che la durata della malattia era stata superiore a 40 giorni e ciò in quanto lo stesso aveva dovuto sottoporsi ad un trattamento farmacologico necessario per debellare il virus dall’organismo avente effetti collaterali che rendevano rilevanti, ai fini penali, anche le giornate di forzata inattività per ragioni di salute succedutesi nel corso della cura e imputabili a quelli effetti collaterali. Nel concetto di malattia rilevante ai fini dell’integrazione del reato di lesioni personali rientra in ogni caso, secondo la suprema Corte, qualsiasi alterazione anatomico funzionale dell’organismo e quindi anche lo stato di alterazione dell’organismo determinato dalla presenza in esso di un fattore patogeno potenzialmente in grado di portare quel processo a conclamate forme di acutizzazione.
Quanto alla condotta illecita attribuita al medico competente, la Corte di Appello aveva ritenuto accertato che al momento dell’accaduto non vi erano a disposizione aghi cannula protetti e che la scelta dell’operatore circa l’uso degli aghi cannula dotati di meccanismi di protezione era stata determinata dall’uso che doveva essere fatto degli stessi e dalle condizioni del paziente, sicché non era stata una libera scelta dell’operatore quella di fare ricorso agli aghi cannula non protetti.
La Corte di Appello aveva anche escluso che, in ordine alla posizione dell’imputato. potesse essere significativo che gli aghi cannula protetti non fossero disponibili presso la farmacia dell’ospedale, posto che al medesimo veniva rimproverato di non aver previsto l’adozione e l’uso degli stessi nel documento di valutazione dei rischi, alla cui stesura era stato chiamato a collaborare in qualità di medico competente. A tal ultimo riguardo, la Corte di Appello aveva evidenziato che la tematica del rischio biologico conseguente all’utilizzo negli ospedali di aghi senza protezione era ben noto nella normativa specialistica dell’epoca del fatto e che l’affermazione dell’imputato, secondo la quale egli avrebbe ripetutamente segnalato alla direzione sanitaria anche in sede di riunione periodico annuale, ai sensi dell’art. 35 del D. Lgs. n. 81/2008, la proposta di adottare quei presidi suggeriti dall’evoluzione della tecnologia e dunque gli aghi protetti, non trovava corrispondenza nella documentazione acquisita agli atti.
Pertanto, ha precisato la Cassazione, l’omissione ascritta al medico competente era effettivamente sussistente ed aveva avuto un’effettiva incidenza rispetto al verificarsi dell’evento, perché una sua eventuale segnalazione, corredata di specifiche indicazioni e valutazioni circa la pericolosità dell’utilizzo dei dispositivi privi di protezione e la necessità di una loro sostituzione, avrebbe avuto quale seguito la concreta esecuzione delle misure e l’approvvigionamento di quelle attrezzature. Anzi a tal proposito, per la Corte territoriale, l’individuazione nel DVR della specifica misura antinfortunistica avrebbe orientata la spesa in modo da renderne possibile l’adozione degli aghi protetti. La Corte di Appello, peraltro, aveva escluso che il problema dei costi fosse un reale ostacolo, richiamando a riguardo la testimonianza della direttrice della farmacia dell’azienda ospedaliera.
Il ricorso per cassazione e le motivazioni.
L’imputato ha proposto ricorso alla Corte suprema per la cassazione della sentenza, a mezzo del proprio difensore, articolando alcune motivazioni. Si era lamentato, in particolare, l’imputato per il fatto che la Corte di Appello aveva ritenuto che la malattia dell’infermiere avesse avuto una durata superiore a quaranta giorni sulla base di una nozione di malattia difforme dal concetto clinico, il quale richiede il concorso del requisito essenziale di una riduzione apprezzabile di funzionalità. La sentenza di condanna, pertanto secondo il ricorrente, era stata viziata laddove aveva computato un periodo di cura cautelativa per l’evenienza che il virus non fosse stato debellato. Si è lamentato inoltre per l’illogicità della sentenza in quanto il datore di lavoro e il direttore del P.S., con i quali era stato chiamato a collaborare, erano stati assolti per cui il venir meno della presunta responsabilità principale non poteva che far venir meno quella concorrente. L’affermazione secondo la quale non grava sul delegato dal datore di lavoro il compito di valutare i rischi e di individuare i necessari Dpi non poteva, secondo il ricorrente, che valere anche per lui e se il coimputato direttore dell’U.O. del Pronto Soccorso era stato assolto per non avere egli i poteri di spesa e nemmeno gli obblighi di segnalazione non si poteva rimproverare alcunché a lui che era nella medesima condizione.
Le decisioni in diritto della Corte di Cassazione.
Il ricorso è stato ritenuto infondato e per taluni motivi ai limiti dell’inammissibilità. In merito in particolare al concetto di malattia la Cassazione ha precisato che, ai sensi e agli effetti dell’art. 582 c.p., la nozione di malattia non comprende tutte le alterazioni di natura anatomica, che possono anche mancare, bensì solo quelle da cui deriva una limitazione funzionale o un significativo processo patologico o l’aggravamento di esso ovvero una compromissione delle funzioni dell’organismo, anche non definitiva, ma comunque significativa. La lesione personale, ha aggiunto, deve considerarsi grave se l’incapacità ad attendere alle ordinarie occupazioni perduri oltre il quarantesimo giorno, ivi compreso il periodo di convalescenza o quello di riposo dipendente dalla malattia stessa.
In merito al tema dei doveri del medico competente la suprema Corte ha ricordato che lo stesso è titolare di una propria sfera di competenza; si tratta di un garante a titolo originario e non derivato. L’obbligo di collaborazione con il datore di lavoro da parte del medico competente, peraltro, il cui inadempimento integra il reato di cui al D. Lgs. 9 aprile 2008n. 81, art. 25, comma 1, lett. a) “comporta un’effettiva integrazione nel contesto aziendale del sanitario, il quale non deve limitarsi ad un ruolo meramente passivo, ma deve dedicarsi ad un’attività propositiva e informativa in relazione al proprio ambito professionale”. Laddove poi il ricorso, ha così concluso la suprema Corte, pretende di dare rilievo all’ipotesi che la richiesta di acquisizione dei dispositivi di sicurezza sia stata fatta oralmente, ha proposto un tema che avrebbe dovuto essere avanzato in sede di merito.
Al rigetto del ricorso è conseguita la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Gerardo Porreca