07.01.2020
I datori di lavoro, ai fini della applicazione delle norme di legge in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, devono avere nei confronti dei lavoratori che prestano la propria attività per conto degli stessi la cultura e la “forma mentis” del garante del bene costituzionalmente rilevante costituito dalla integrità fisica dei lavoratori e non devono limitarsi a formare ed informare gli stessi sulle norme antinfortunistiche previste né ad impartire a questi le direttive da seguire per garantire la sicurezza dello svolgimento del lavoro ma devono attivarsi e controllare fino alla “pedanteria” che nella ordinaria prassi di lavoro le norme di sicurezza siano state assimilate dagli stessi. Questo è il messaggio che emerge dalla sentenza della Corte di Cassazione in commento e che abbiamo già letto e commentato in occasione della Sentenza n. 31679 del 11 agosto 2010 della stessa Sez. IV penale pubblicata e commentata dallo scrivente nell’articolo “ Sulla "forma mentis" e sulla "pedanteria" richieste ai datori di lavoro”.
Ora in questa occasione la suprema Corte, nel decidere su di un ricorso presentato da un datore di lavoro condannato per un infortunio mortale occorso a un lavoratore caduto da un ponteggio privo delle regolari protezioni e nell’esprimersi sugli obblighi che il datore di lavoro deve avere nei confronti dei lavoratori dipendenti, è tornata a ribadire che lo stesso deve controllare sino alla pedanteria affinché le norme di sicurezza siano assimilate dai lavoratori nella loro ordinaria attività.
La Corte di Appello ha confermata la condanna pronunciata dal Tribunale nei confronti di un datore di lavoro e legale rappresentante di una ditta imputato del reato di cui all'art. 589 del codice penale per aver cagionato la morte, con colpa consistita in imprudenza, negligenza, imperizia e violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, di un dipendente operaio muratore e con colpa specifica consistita, in particolare, nella violazione di cui agli artt. 16 e 7 del D.P.R. n. 164/56 e all' art. 26 del D.P.R. n. 547/55, per non aver realizzato un idoneo parapetto e opere provvisionali costruite con buon materiale e a regola d'arte, proporzionate e idonee allo scopo, conservate in stato di efficienza per tutta la durata dei lavori, atte ad impedire la caduta dall'alto, durante i lavori di demolizione e ricostruzione di un fabbricato urbano. In conseguenza di tale omissione, l’operaio, che stava lavorando alla messa in opera del materiale di copertura del balcone, accovacciato con le spalle rivolte al parapetto, costituito da una protezione provvisoria composta da assi di legno e tubolari tenuti insieme dal solo filo di ferro, nel momento in cui si appoggiava, per reggersi o rimettersi in piedi, al corrente intermedio, costituito da una tavola di 9 cm di larghezza e dello spessore di 2,5 cm, la tavola cedeva spezzandosi, così determinando la caduta nel vuoto dell'operaio da un'altezza di 4,5 m. A seguito della caduta l’operaio sbatteva violentemente la testa e decedeva per le lesioni riportate.
Il Tribunale aveva affermato la penale responsabilità dell'imputato condannandolo alla pena ritenuta di giustizia, oltre al risarcimento dei danni in favore della parte civile e al versamento della provvisionale esecutiva pari ad euro 60.000. A seguito della impugnazione da parte dell'imputato, la Corte d'Appello ha confermata l'affermazione di colpevolezza pronunciata dal primo giudice, disattendendo la tesi difensiva secondo cui l'imputato sarebbe caduto a seguito di un malore, per una miscela di farmaci e alcool, e ribadendo l'assoluta inidoneità della protezione realizzata sul balcone che, sottoposta alla pressione del corpo umano, ha ceduto, facendo precipitare la vittima confermando altresì il trattamento sanzionatorio riservato dal primo giudice e le statuizioni civili.
In punto di responsabilità, la Corte distrettuale ha osservato che l’unico garante della sicurezza nel caso in esame era il datore di lavoro (cioè l’imputato) posto che l'infortunio era avvenuto all'interno dell'area di rischio nella quale si collocava il suo primario obbligo di assicurare le più appropriate condizioni di sicurezza al lavoratore, anche in rapporto a possibili comportamenti trascurati o disattenti del lavoratore stesso. Oltre tutto, ha aggiunto la Corte territoriale, non era stato provato l'asserito "malore" del dipendente ma era risultato da testimonianze che poco più di un mese prima, gli ispettori del lavoro avevano constatato, ai sensi dell'art. 77 lett. c del D.P.R. n. 164/56, la mancanza di idonee protezioni contro il pericolo di cadute dall'alto e lo avevano diffidato a non far proseguire i lavori prima di aver eliminato la violazione. Una documentazione fotografica, altresì, aveva evidenziata l'assoluta inadeguatezza della protezione del posto di lavoro dell’infortunato contro il rischio di caduta dall’alto.
L’imputato ha ricorso per cassazione tramite il difensore di fiducia, lamentando che l'oggetto della contravvenzione da parte dell'Ispettorato del lavoro aveva riguardato l'assenza di parapetto e non la sua inadeguatezza, in quanto rispondeva ai requisiti di cui all'art. 26 del D.P.R. n.547/55 e sostenendo, altresì, che l'infortunio era stato causato dalla rottura della tavola centrale e non dall'ancoraggio artigianale fatto con del filo di ferro. La Corte territoriale, inoltre, non aveva motivato sulla condotta imprudente del lavoratore.
Secondo il ricorrente l’operaio era precipitato non perché si era rialzato dalla posizione in cui si trovava e aveva perso l'appoggio che doveva garantirgli il parapetto ma perché, lavorando nella parte interna al bancone, a causa di un malore determinato dalle sue condizioni psico-fisiche, era rovinato all'indietro, andando ad incunearsi tra il corrente superiore costituito da un tubo di acciaio e la tavola fermapiede lungo il pavimento sfondando il corrente intermedio. L’operaio inoltre aveva assunto una notevole dose di alcol durante la giornata oltre ad un antidolorifico per cui aveva avuto un malore e, avendo perso i sensi, era precipitato di spalle, al di sotto del corrente superiore.
Il ricorso è stato ritenuto dalla Corte di Cassazione manifestamente infondato e perciò inammissibile. La stessa ha ritenuto la decisione presa dalla Corte territoriale formalmente e sostanzialmente legittima avendo la stessa, dopo aver analizzato tutti gli aspetti della vicenda (dinamica dell'infortunio, posizione di garanzia dell'imputato, nesso di causalità tra la condotta contestata e l'evento, comportamento della parte lesa), spiegato le ragioni per le quali ha ritenuto sussistente la penale responsabilità del ricorrente. Il compito del datore di lavoro, ha precisato la Se. IV, è molteplice e articolato e va dalla istruzione dei lavoratori sui rischi di determinati lavori e dalla conseguente necessità di adottare certe misure di sicurezza alla predisposizione di queste misure (con obbligo, quindi, ove le stesse consistano in particolari cose o strumenti, di mettere queste cose, questi strumenti, a portata di mano del lavoratore), e, soprattutto, al controllo continuo, pressante, per imporre che i lavoratori rispettino quelle norme, si adeguino alla misure in esse previste e sfuggano alla superficiale tentazione di trascurarle. “Il datore di lavoro”, ha sostenuto la suprema Corte, “deve avere la cultura e la forma mentis del garante del bene costituzionalmente rilevante costituito dalla integrità del lavoratore, e non deve perciò limitarsi ad informare i lavoratori sulle norme antinfortunistiche previste, ma deve attivarsi e controllare sino alla pedanteria, che tali norme siano assimilate dai lavoratori nella ordinaria prassi di lavoro”.
Su tale punto, ha ricordato la Sez. IV, hanno avuto modo di intervenire anche le Sezioni Unite della stessa Corte di Cassazione (Sez. Un. n. 6168 del 21/05/1988 dep. 21/04/1989) enunciando il principio secondo cui al fine di escludere la responsabilità per reati colposi dei soggetti obbligati ex art. 4 del D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547 a garantire la sicurezza dello svolgimento del lavoro, non è sufficiente che tali soggetti impartiscano le direttive da seguire a tale scopo, ma è necessario che ne controllino con prudente e continua diligenza la puntuale osservanza.
Con riferimento al comportamento del lavoratore poi la suprema Corte ha osservato che la normativa antinfortunistica mira a salvaguardare l'incolumità del lavoratore non solo dai rischi derivanti da incidenti o fatalità, ma anche da quelli che possono scaturire dalla sue stesse disattenzioni, imprudenze o disubbidienze alle istruzioni o prassi raccomandate, purché connesse allo svolgimento dell'attività lavorativa. È pur vero che destinatari delle norme di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro sono non solo i datori di lavoro, i dirigenti e i preposti, ma anche gli stessi operai; tuttavia, l'inosservanza di dette norme da parte dei datori di lavoro, dei dirigenti e dei preposti ha valore assorbente rispetto al comportamento dell'operaio, la cui condotta può assumere rilevanza ai fini penalistici solo dopo che da parte dei soggetti obbligati siano state adempiute le prescrizioni di loro competenza.
In conclusione, ai fini della sussistenza della penale responsabilità dell'imputato per l’evento infortunistico, ha assunto nel caso in esame una notevole rilevanza la circostanza che fu proprio quest'ultimo, quale datore di lavoro, a mettere a disposizione del lavoratore quel parapetto assolutamente inadeguato, sotto il profilo delle misure di protezione, per l'attività lavorativa da svolgere, ignorando non solo le prescrizioni degli Ispettori del Lavoro che, già prima avevano rilevato nel cantiere una grave carenza di dispositivi di sicurezza, ma anche quelle incluse nel POS, relative ad andatoie e passerelle, predisponendo sul balcone, ove la vittima stava realizzando la pavimentazione, una protezione, definita dalla Corte territoriale, "risibile", costituita da un'asse di legno assicurata con del fil di ferro a dei montanti in ferro che, sottoposta alla mera pressione del corpo umano, ha ceduto, come risulta documentato dai rilievi fotografici, con esito letale per il lavoratore che è precipitato da un'altezza superiore a 2 metri.
Alla dichiarazione di inammissibilità quindi è seguita la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di 2.000 euro a favore della Cassa delle Ammende nonché alla rifusione delle spese di giudizio alle costituite parti civili liquidate in 4.000 euro.
Gerardo Porreca