09.05.2019
Una interessante sentenza del mese scorso (Cassazione Penale, Sez.VII, 17 aprile 2019 n.16715) ha gettato una luce sul problema della non veridicità della documentazione di salute e sicurezza e, in particolare, sulla questione relativa ai falsi attestati di formazione.
In questa pronuncia la Suprema Corte, oltre a dare conto - come vedremo nel dettaglio - delle modalità concrete con cui il Tribunale ha accertato la falsità di tali attestazioni, sottolinea anche le conseguenze giuridiche che tali false attestazioni determinano.
Nello specifico, la Cassazione Penale ha confermato la sentenza del Tribunale di Genova che nel 2017 aveva dichiarato l’imputato A. (datore di lavoro dell’azienda F.) colpevole di numerose violazioni contravvenzionali in materia di salute e sicurezza tra le quali vi era anche la violazione dell’art.73, commi 4 e 5, del D.Lgs.81/08 (norma che regola l’informazione, la formazione e l’addestramento in materia di attrezzature di lavoro), in relazione a fatti risalenti al 2015.
Le suddette violazioni a carico del datore di lavoro A., comprensive anche della violazione dell’art.73 del D.Lgs.81/08, erano state “accertate a seguito di un infortunio sul cantiere allestito in Genova per la posa di alcuni cavi di fibra ottica ad un lavoratore extracomunitario suo dipendente”.
La sentenza ricostruisce punto per punto l’intero percorso di accertamento operato dal Tribunale in merito alla (non) formazione del lavoratore P.L. (che era “il lavoratore che aveva materialmente operato la movimentazione” in quanto “addetto alle manovre di sollevamento con la gru”, laddove il lavoratore infortunatosi era S.) e alla falsità dell’attestato prodotto dall’azienda.
Anzitutto, il Tribunale aveva accertato che “il personale presente sul cantiere (segnatamente il P.L.) non aveva la formazione adatta per lo svolgimento dell’attività certamente pericolosa posta in essere” e che “sul luogo era mostrato il POS in cui il datore di lavoro, conformemente alla visura camerale della CCIAA, risultava essere l’attuale ricorrente e non era presente alcuna indicazione sulla formazione specifica dei lavoratori”.
Inoltre “il coordinatore per la sicurezza, presente in loco, non essendo in condizione di fornire documentazione al riguardo, in un secondo momento aveva fatto pervenire la documentazione inviatagli dalla F., da cui risultava che in nessuno degli eventi formativi organizzati dalla società erano però stati presenti i due lavoratori impiegati in quel cantiere, né il P.L. né il lavoratore infortunatosi, tale S., né tantomeno un terzo lavoratore, tale F., poi incontrato al pronto soccorso”.
A partire da tali presupposti, le indagini successivamente svolte sul P.L., consentivano di accertare che egli “era stato recentemente assunto in data 27.10.2015 e che il medesimo non avesse ricevuto formazione”.
A questo punto, “richiesta di documentazione al riguardo, la F. aveva risposto inviando un attestato per la formazione successiva alla data del 2.11.2015, ma che recava una data antecedente”.
La sentenza precisa che “la falsità di tale attestato, in particolare, veniva desunta dal giudice non solo perché la data della supposta formazione (24.10.2015) era antecedente all’assunzione del P.L. (27.10.2015), ma soprattutto dal fatto che il progressivo dell’attestato corrispondeva ad un codice fiscale diverso rispetto a quello del lavoratore P.L.”.
A questo punto, è stata decisiva la verifica della documentazione in possesso della Società erogatrice della formazione e la conseguente verifica in sede giudiziaria dei corsi realmente erogati dalla stessa e, soprattutto, dei relativi destinatari.
Sotto questo profilo, la Cassazione sottolinea che “gli accertamenti eseguiti presso la società che effettuava i corsi di formazione avevano dato infatti esito positivo, risultando invero che il progressivo indicato nell’attestato riguardava in effetti un altro lavoratore ed un altro corso”.
In questo contesto, anche “la deposizione resa dal P.L., infine, era risultata falsa, avendo egli fornito una versione assolutamente inverosimile sulla questione relativa all’attività di formazione che avrebbe svolto prima della data dell’infortunio al collega di lavoro (venendo a più riprese fatto oggetto di contestazione ex art.500, c.p.p. da parte del PM nel corso dell’esame testimoniale) sia sulla sua situazione lavorativa con la F. (asserendo in chiusura del suo esame, di non avere più rapporti) sia, ancora, mostrando una disarmante ingenuità nell’affermare, a domanda del PM se qualcuno gli avesse indicato le modalità di movimentazione del pozzetto, che nessuno lo aveva fatto perché non ce n’era bisogno considerata la semplice manovra di sollevamento da svolgere”.
Sulla base di tutti questi elementi, il Giudice ha ritenuto - e la Cassazione ha poi confermato, dichiarando inammissibile il ricorso - la responsabilità penale del datore di lavoro A. il quale, tra le varie omissioni determinanti ai fini dell’infortunio, non aveva adottato “le misure necessarie affinché il P.L., addetto alle manovre di sollevamento con la gru, avesse ricevuto una formazione, informazione ed addestramento adeguati e specifici, tali da consentire l’utilizzo delle attrezzature in modo idoneo e sicuro anche in relazione ai rischi che potevano esser causati ad altre persone”.
Pertanto - sottolinea la Corte - la conclusione secondo cui “l’attività di formazione del personale sul cantiere non fosse stata curata bene è desunta logicamente dal giudice con riferimento alla posizione del lavoratore P.L., al punto tale che la stessa società di cui l’imputato è legale rappresentante giunse a formare un documento falso che ne attestava la formazione, falsità corroborata non solo dall’anteriorità della data in cui la formazione sarebbe avvenuta rispetto alla data dell’assunzione, ma soprattutto dagli accertamenti svolti presso la società di formazione che avevano consentito di appurare che il cronologico esistente sull’attestato riguardasse in realtà un lavoratore diverso.”
Per quanto attiene poi alla richiesta delle attenuanti generiche da parte della difesa del datore di lavoro ricorrente, essa è stata respinta dalla Cassazione che ha escluso la presenza di elementi che la giustificassero, “dovendosi in particolare valorizzare, tra i tre elementi indicati dalla Corte, particolarmente la produzione della falsa documentazione da parte dell’imputato, che non solo denota particolare callidità [astuzia, n.d.r.] nell’azione, ma è chiaramente descrittiva, nell’ottica del giudice, di un negativo giudizio sulla personalità dell’imputato,elemento che deve essere valutato ex art.133, c.p., smentendo nel contempo la sussistenza dei fattori attenuanti invocati, tra cui proprio la condotta del reo successiva al reato, concretizzatasi nel produrre un documento falso all’organo di vigilanza per ottenere i benefici derivanti dalla procedura di cui al d.lgs.n.758 del 1994, osta al riconoscimento dell’art.62 bis, c.p.”
Guardando alle sentenze di Cassazione, va detto che la produzione di documenti falsi in materia di salute e sicurezza non è purtroppo una novità, constando diversi precedenti giurisprudenziali.
Per esigenze di brevità, ne citeremo qui molto sinteticamente uno per tutti (riguardante in questo caso la documentazione in materia di prevenzione incendi).
Cassazione Penale, Sez.V, 13 aprile 2011 n.15035 si è qualche anno fa pronunciata su un caso che ha avuto ad oggetto la documentazione relativa al certificato di prevenzione incendi.
In particolare, “il dirigente amministrativo dell’Ufficio Commercio del Comune di B., veniva ritenuto responsabile dei reati di falso per soppressione e falso in atto pubblico; D.G. e D.F., proprietari di due stabilimenti balneari […], venivano ritenuti responsabili, in concorso con il geometra V.D., del reato di falso in certificato ex art.481 c.p.”.
Secondo l’ipotesi di accusa, il dirigente amministrativo S. “aveva soppresso due provvedimenti da lui stesso emessi l’8 luglio 2005, con cui intimava ai D. di produrre entro tre giorni il certificato di prevenzione incendi per due locali da loro gestiti, contestualmente disponendo l’immediata sospensione dell’efficacia delle autorizzazioni a suo tempo rilasciate per lo svolgimento in quei locali di trattenimenti danzanti.”
Egli - si legge nella sentenza - “aveva poi sostituito detti atti con due provvedimenti datati 11 luglio 2005, ai quali aveva attribuito lo stesso numero di protocollo dei documenti soppressi, con cui non veniva più disposta la sospensione della validità delle autorizzazioni, ma si chiedeva ai D. solo la produzione di “ogni altra documentazione attestante il rispetto delle vigenti disposizioni in materia di prevenzione incendi”.”
A D.G. e D.F., che sono coloro che hanno poi ricorso in Cassazione, “era invece contestato di aver istigato il geometra V.D. a certificare che negli stabilimenti balneari…, ove i locali da destinare ad intrattenimenti danzanti erano siti, erano state rispettate tutte le prescrizioni in tema di sicurezza ed incolumità pubblica.”
La sentenza del Tribunale era stata confermata dalla Corte di appello di Genova.
La Cassazione ha confermato le responsabilità su richiamate dei ricorrenti D.G. e D.F., rigettando i relativi ricorsi.
Anna Guardavilla
Dottore in Giurisprudenza specializzata nelle tematiche normative e giurisprudenziali relative alla salute e sicurezza sul lavoro