21.03.2019
La Cassazione è saldamente orientata da sempre nel ritenere che “l’art. 2087 cod. civ. ... non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento (cfr. Cass. 29/1/2013 n. 3288)” [Cassazione civile sez. lav. 27 giugno 2014 n. 14614].
La Suprema Corte, con Ordinanza 09 maggio 2018, n. 11170 relativa al contratto di somministrazione, ha argomentato in modo esemplare in relazione al presupposto giuridico consolidato per cui la responsabilità datoriale di cui all' art. 2087 del Codice Civile non configura in alcun modo una forma di responsabilità oggettiva insuperabile:
«l’art. 2087 c.c. è norma impositiva per il datore di lavoro di una articolata, complessa e piena responsabilità della integrità psico- fisica del dipendente. Si tratta infatti di una disposizione che individua, al pari delle disposizioni relative alla retribuzione, agli obblighi contributivi, assistenziali, assicurativi, il nucleo essenziale dei doveri contrattuali che pesano sul datore di lavoro. Questi ultimi, nella stessa previsione della disciplina in materia di somministrazione, continuano a permanere (art. 25) in capo al somministratore.
La consolidata giurisprudenza di questa Corte ha considerato l’art. 2087 c.c. quale ‘norma di chiusura’ del sistema antinfortunistico e quindi anche assoggettata, in ragione di questa natura, alla possibilità di interpretazione estensiva ‘alla stregua sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute (art. 32 Cost.), sia dei principi di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 cod. civ.) ai quali deve ispirarsi anche lo svolgimento del rapporto di lavoro’. Per questo la giurisprudenza di questa Corte ha inteso l’obbligo datoriale di ‘tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro’, sancito da questa norma, nel senso di includere anche l’obbligo della adozione di ogni misura ‘atipica’ diretta alla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori’ (Cass. n. 3291/2016).
Pur essendo il perimetro disegnato dall’art. 2087 cc destinato a mutare in relazione alla richiamata natura elastica della disposizione, non può peraltro comprendere alcuna ipotesi di responsabilità oggettiva del datore di lavoro, essendo sempre possibile che questo dimostri di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedirlo e, tra queste, di aver vigilato circa l’effettivo uso degli strumenti di cautela forniti al dipendente (Cass. 2209/2016). Rispetto a tali premesse, fondative del sistema complessivo di tutele del lavoratore, la particolarità del contratto di somministrazione, la presenza di una scissione tra utilizzatore e datore di lavoro, e, soprattutto, l’impossibilità giuridica e materiale che il somministratore disponga le cautele antinfortunistiche all’interno dell’azienda dell’utilizzatore, ha determinato la scelta legislativa di articolare differentemente gli obblighi datoriali e, deve ritenersi, le relative responsabilità.
Sia nel D.Lgs n. 276/2003 (all’art. 23, comma 5), ratione temporis applicabile alla fattispecie in esame, che nel successivo art. 35 del D.Lgs n. 81/2015 (abrogativo dell’art. 23), il legislatore ha individuato, nella informazione dei rischi e nella formazione e addestramento all’uso dei macchinari, gli obblighi del somministratore, ed ha poi imposto all’utilizzatore, nei confronti dei lavoratori somministrati, i medesimi obblighi di protezione che la legge o il contratto pone a suo carico con riguardo ai suoi dipendenti.
A disciplinare la materia è da ultimo intervenuto l’art 3, comma 5 del D.Lgs n. 81/2008 dispositivo delle misure in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro, che ha chiarito ulteriormente che ‘nell’ipotesi di prestatori di lavoro nell’ambito di un contratto di somministrazione di lavoro di cui agli articoli 20, e seguenti, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni, fermo restando quanto specificamente previsto dal comma 5 dell’articolo 23 del citato decreto legislativo n. 276 del 2003, tutti gli obblighi di prevenzione e protezione di cui al presente decreto sono a carico dell’utilizzatore’. Quest’ultimo intervento legislativo, se pur non applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame, è utile a comprendere come l’individuazione del soggetto responsabile e degli oneri di protezione a questo collegati, abbia seguito la strada della effettività del rapporto di lavoro e della sua concreta vicinanza ai soggetti che in esso vengono coinvolti.
Dall’assetto normativo così delineato consegue quindi un riparto di responsabilità che fa convergere sull’utilizzatore ogni finale responsabilità sugli specifici obblighi di prevenzione e protezione relativi alla attività di lavoro prestata in suo favore e sul somministratore una responsabilità derivata dall’obbligo di informare e formare il lavoratore. L’attribuzione di tale ultimo obbligo, peraltro, può essere anche oggetto di specifica traslazione dal somministratore all’utilizzatore, secondo quanto previsto dal richiamato art. 23, comma 5, e poi anche dal successivo art. 35 d.lgs. n. 81/2015. Di tale pattuizione deve essere data indicazione nel contratto con il lavoratore.
La possibilità di delegare all’utilizzatore gli obblighi in questione risponde ad una logica di effettività delle tutele in quanto sposta sul soggetto direttamente presente nel luogo di lavoro e diretto conoscitore dei macchinari, delle lavorazioni e, in sintesi, delle problematiche legate alla specifica sicurezza di quel luogo di lavoro, gli obblighi di puntuale e diretta formazione e informazione del lavoratore. La indisponibilità del luogo della prestazione da parte del somministratore determina, infatti, il rischio che gli obblighi formativi e informativi a lui rimessi in via primaria risultino poco efficaci.
L’accordo in questione, se indicato (come richiesto dall’art. 23, comma 5 richiamato) nel contratto individuale di lavoro, diviene opponibile anche al lavoratore, con ciò determinando l’ampliamento della obbligazione assunta dall’utilizzatore e la esclusione della responsabilità del somministratore».
Con sentenza della Corte di Cassazione - sez. lavoro - sentenza n. 12347 del 15 giugno 2016 il concetto è stato sviluppato con particolare riguardo ad un incidente, nel quale un lavoratore riportava gravi lesioni a seguito di uno scontro in bicicletta in un cantiere.
La Corte di Appello dichiarava la responsabilità esclusiva di altro lavoratore, dipendente di una impresa consorziata che, sopraggiungendo anch’egli in bicicletta, lo investiva causando le lesioni; la Corte escludeva la responsabilità della società datrice di lavoro dell’infortunato e della società consortile, la quale non risultava essersi ingerita nella gestione del cantiere.
L’infortunato proponeva ricorso per Cassazione, contestando l’esclusione di responsabilità del proprio datore di lavoro.
La Suprema Corte esordisce inquadrando normativamente gli obblighi del datore di lavoro per la massima tutela delle condizioni di lavoro: «va anzitutto ribadito che l’art. 2087 c.c. non configura una forma di responsabilità oggettiva a carico del datore di lavoro, non potendosi automaticamente desumere dal mero verificarsi del danno l’inadeguatezza delle misure di protezione adottate: la responsabilità datoriale va infatti collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle migliori conoscenze sperimentali o tecniche del momento al fine di prevenire infortuni sul lavoro e di assicurare la salubrità e, in senso lato, la sicurezza in correlazione all’ambiente in cui l’attività lavorativa viene prestata, onde in tanto può essere affermata in quanto la lesione del bene tutelato derivi causalmente dalla violazione di determinati obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche in relazione al lavoro svolto (cfr. tra le tante Cass. nn. 8381 del 2001, 3234 del 1999, 5035 del 1998).
Ovvero abbiamo a che fare con un’obbligazione assimilabile a quelle definite “di mezzi”, in cui la diligenza non solo rappresenta il criterio per valutare l’esattezza dell’adempimento, ma rappresenta interamente l’oggetto stesso dell’obbligazione: si tratta in sostanza del dovere giuridico di conoscere (direttamente o a mezzo di esperti qualificati) quelle conoscenze tecnico-scientifiche e di adottare quelle tecniche più avanzate e disponibili che devono essere considerate lo stato dell’arte tecnica al fine di perseguire l’obiettivo prescritto dall’art. 2087 del Codice Civile.
Il mancato conseguimento dell’obiettivo di tutela integrale della salute psicofisica del lavoratore assume rilievo solo in quanto esista un nesso di causalità materiale e normativo tra la condotta difforme da questo qualificato obbligo di diligenza e l’evento dannoso che si sia concretamente verificato. Dunque l’ art. 2087 c.c., nella misura in cui prescrive quale oggetto dell’obbligazione datoriale un facere consistente nell’adozione di tutte le migliori “misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità dei prestatori di lavoro”, consente di imputare al datore di lavoro non certo qualsiasi evento lesivo della salute dei propri dipendenti (che in tal caso si ricadrebbe in una forma di responsabilità oggettiva), ma solamente quell’evento che concretizzi le astratte qualifiche di colpa generica, ovvero negligenza, imprudenza, imperizia o di colpa specifica, ovvero inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.
Deve invece assolutamente escludersi qualunque responsabilità datoriale ogni qualvolta la condotta imprenditoriale sia stata improntata alla massima diligenza tecnicamente fattibile ovvero non sia stata negligente (imprudente, imperita, ecc.) per quel che riguarda lo specifico rischio di cagionare proprio l’evento concreto che in effetti si sia di fatto cagionato.
Per la Cassazione, in questo caso «la Corte territoriale ha accertato che il cancello posto all’ingresso del cunicolo era stato legittimamente aperto per l’effettuazione di lavori di manutenzione e, ritenendo che l’avvenuta collocazione in loco da parte di T. del segnale di ‘procedere a passo d’uomo’ e di quello di pericolo ‘entrare ed uscire adagio’ valesse ad ammonire quanti percorrevano il luogo dell’insidia connessa all’accesso sul sottopassaggio del viale centrale, ha assolto l’azienda dall’accusa di aver violato qualsivoglia regola cautelare».
Il lavoratore ricorrente si lamentava nei confronti del capo di sentenza che ha escluso la responsabilità del Consorzio C. (e dunque dell’incorporante S.), ma il Collegio sottolinea che «la Corte territoriale ha escluso che fosse stata raggiunta la prova di un’effettiva ingerenza nella gestione del cantiere dei dipendenti del Consorzio che vi erano presenti».
La Cassazione, pertanto, ha rigettato il ricorso.
La Cassazione dunque ribadisce una volta di più che l’art. 2087 c.c. non configura una forma di responsabilità oggettiva a carico del datore di lavoro: non si può mai automaticamente dedurre dal mero evento di danno l’inadeguatezza e insufficienza delle misure di prevenzione/ protezione adottate.
La responsabilità datoriale deve essere sempre necessariamente ricollegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle migliori conoscenze sperimentali o tecniche, o anche da diligenza, perizia, prudenza.
La finalità della norma di cui all’articolo 2087 del Codice Civile è ovviamente quello di prevenire infortuni sul lavoro e le malattie professionali e dunque di garantire la sicurezza e la salubrità dell’ambiente di lavoro, ovunque sia collocato nel mondo, in senso lato, la sicurezza in correlazione all’ambiente di lavoro.
Rolando Dubini, avvocato in Milano, patrocinante in Cassazione