20.12.2018
In particolare, nel caso di specie, era stato accertato che “il lavoratore infortunato - assunto da poco tempo - era stato addetto alla pressa solo qualche giorno prima dell'infortunio; egli aveva affermato di essere uno stampatore, ma non aveva alcuna competenza nello specifico settore, come appurato dai colleghi di lavoro; la formazione impartitagli era stata dunque del tutto insufficiente, perché il corso generale sul funzionamento dei macchinari era durato solo quattro ore ed egli era stato avviato a lavorare da solo sul macchinario in questione dopo appena due giorni, senza una previa verifica pratica e in assenza di un vero e proprio affiancamento e di una concreta supervisione, come pure previsto dall'art.5.1 della procedura per la formazione del personale in vigore presso l'azienda.”
Nel confermare la condanna del datore di lavoro per lesioni colpose, la sentenza sottolinea il principio secondo cui “l'obbligo di formazione non si esaurisce nel passaggio di conoscenze teoriche e pratiche al dipendente, dovendo il soggetto obbligato verificare anche che esse siano divenute patrimonio acquisito in concreto, ciò che solo una effettiva prova pratica, sotto la supervisione di un tutor può garantire, rilevando che, nel caso di specie, la completa estraneità del DB.I. [il lavoratore, n.d.r.] a quella specifica attività era constatabile da chiunque e spiegava ampiamente il comportamento scorretto tenuto dal predetto”.
La Cassazione ricorda inoltre che l’obbligo di formazione “non è escluso, né è surrogabile dal personale bagaglio di conoscenza del lavoratore, formatosi per effetto di una lunga esperienza operativa, o per il travaso di conoscenza che comunemente si realizza nella collaborazione tra lavoratori, anche posti in relazione gerarchica tra di loro (cfr. sez.4 n.22147 dell'01/02/2016, Morini, Rv. 266860), ciò che non è neppure accaduto nel caso all'esame.
Infatti, l'apprendimento insorgente da fatto del lavoratore medesimo e la socializzazione delle esperienze e della prassi di lavoro non si identificano e tanto meno valgono a surrogare le attività di informazione e di formazione prevista dalla legge (cfr. sez.4 n.21242 del 12/10/2014, Nogherot, Rv. 259219).”
Tutto ciò perché, come sottolinea la Corte in un’altra interessante pronuncia (Cassazione Penale, Sez. IV, 23 settembre 2014 n.38966), “una formazione adeguata raramente può prescindere dalla socializzazione delle esperienze professionali maturate da altri lavoratori; ma questa non può esaurire l’attività di formazione e va necessariamente inserita all’interno di un percorso di addestramento che, per garantire il raggiungimento degli obiettivi sostanziali e non la mera osservanza formale dei precetti, deve prevedere momenti di verifica dei risultati:insomma l’attività di formazione è necessariamente un’attività procedimentalizzata.”
Secondo la giurisprudenza della Cassazione la formazione è dunque una “attività procedimentalizzata”, anche con riferimento alla verifica dei risultati.
Ciò in quanto, come ricordato da una sentenza dell’anno scorso (Cassazione Civile, Sezione Lavoro, 18 maggio 2017 n.12561), “se è vero che la effettiva formazione è costituita da una pluralità di momenti e da un insieme di obblighi che si integrano, rappresentando piuttosto un processo formativo; non è vero tuttavia che esista un modello di formazione domestica, fai da te, alternativa a quella prevista dalla legge nella sua scansione dinamica e funzionale.”
Infatti il modello legale di formazione “è un modello di prevenzione ineludibile, che non è rimesso alla discrezionalità del datore; tanto più quando si tratta di formazione all’utilizzo di mezzi pericolosi […]; e che non può essere sostituito dall’addestramento con affiancamento sul campo: senz’altro utile ma non alternativo alla informazione o alla formazione; come peraltro riconosciuto, più volte dalla giurisprudenza (Cass.pen. 20272/2006).”
Pertanto, avendo riguardo al “processo formativo”, la Corte fa riferimento ad una “pluralità di momenti formativi”, precisando che “non può perciò bastare che il datore assolva in modo parziale, soltanto ad alcuni dei predetti obblighi, siccome egli è invece obbligato ad osservarli tutti e per intero, e nell’ordine logico e cronologico voluto dalla legge.”
Ed il modello legale di formazione, come noto, prevede all’art.37 c.1 del D.Lgs. 81/08 che “il datore di lavoro assicura che ciascun lavoratore riceva una formazione sufficiente ed adeguata in materia di salute e sicurezza, anche rispetto alle conoscenze linguistiche….” e al comma 13 che “il contenuto della formazione deve essere facilmente comprensibile per i lavoratori e deve consentire loro di acquisire le conoscenze e competenze necessarie in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Ove la formazione riguardi lavoratori immigrati, essa avviene previa verifica della comprensione e conoscenza della lingua veicolare utilizzata nel percorso formativo.”
Una sentenza della Corte di legittimità (Cassazione Penale, Sez.IV, 26 maggio 2016 n.22147) riassume così “i contorni ed i contenuti dell'obbligo di formazione gravante sul datore di lavoro in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro. Questi ha l'obbligo di assicurare ai lavoratori una formazione sufficiente ed adeguata in materia di sicurezza e salute, con particolare riferimento al proprio posto di lavoro ed alle proprie mansioni, in manieratale da renderlo edotto sui rischi inerenti ai lavori a cui è addetto (cfr. Sez. 3A, sent.n.4063 del 04/10/2007, Rv. 238540; Sez. 4A, sent. n. 41997 del 16/11/2006, Rv. 235679).”
Più in particolare, il modello legale della formazione ha “scandito: a) l'oggetto, dovendo aver attinenza specifica al posto di lavoro e alle mansioni assegnate al lavoratore; b) la temporalità, essendo evidenziati per la sua somministrazione i momenti dell'assunzione, del trasferimento o cambio di mansioni, dell'introduzione di nuove attrezzature di lavoro o di nuove tecnologie, di nuove sostanze e preparati pericolosi, nonché la modifica per evoluzione o per innovazione del quadro dei rischi; c) il coinvolgimento degli organismi paritetici previsti dall'art.20 (ancora più dettagliato e portatore di limitazioni alle scelte datoriali, quanto a contenuti e modalità di somministrazione dell'attività di formazione, è il D.Lgs.n.81 del 2008, art.37 [rispetto al precedente D.Lgs.626/94, n.d.r.]).”
Dunque, prosegue la Cassazione richiamando un principio che si è già avuto modo di illustrare, “già questo breve tratteggio del profilo normativo dell'attività di formazione che il datore di lavoro deve assicurare permette di evidenziare il seguente principio: “in tema di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, l'attività di formazione del lavoratore, alla quale è tenuto il datore di lavoro, non è esclusa dal personale bagaglio di conoscenze del lavoratore, formatosi per effetto di una lunga esperienza operativa, o per il travaso di conoscenze che comunemente si realizza nella collaborazione tra lavoratori, anche posti in relazione gerarchica tra di loro. L'apprendimento insorgente da fatto del lavoratore medesimo e la socializzazione delle esperienze e delle prassi di lavoro non si identificano e tanto meno valgono a surrogare le attività di informazione e di formazione legislativamente previste, le quali vanno compiute nella cornice formalizzata prevista dalla legge”.”
E, nel caso specifico, “ne consegue, che la prova dell'assolvimento degli obblighi di informazione e di formazione del lavoratore non può ritenersi data dalla dedotta circostanza che i due fratelli S. avevano pregresse esperienze per avere esercitato l'attività di taglio di alberi di alto fusto nel loro paese d'origine.”
Nell’articolo 37 del D.Lgs.81/08, richiamato dalla Cassazione in quest’ultima sentenza, è dunque rintracciabile un’applicazione al tema della formazione del principio di effettività, da decenni applicato e ribadito in via giurisprudenziale dalla Corte di Cassazione, secondo cui quella prevista dall’attuale articolo 37 stesso non può essere configurata come una “obbligazione di mezzi”, la quale - qualora in questo caso sussistesse - obbligherebbe il datore di lavoro semplicemente allo svolgimento di una certa attività (l’“erogazione” della formazione, indipendentemente dalla verifica dell’assimilazione da parte del lavoratore), bensì va inquadrata come un’obbligazione di risultato, laddove quest’ultimo è rappresentato dalla effettiva assimilazione dei concetti e dei contenuti ad opera dei destinatari della formazione.
Se ciò che viene richiesto al datore di lavoro è dunque il raggiungimento di un obiettivo concreto, legato all’apprendimento da parte del lavoratore e quindi ad un risultato verificabile - e da verificarsi obbligatoriamente - nella pratica, lo strumento per il raggiungimento di tale risultato e quindi l’adempimento dell’obbligazione sottostante non può che essere inquadrato in termini fattuali, sostanzialistici e di reale raggiungimento dello scopo, e non certo in termini burocratici, formalistici ed astratti.
Un breve cenno ad una interessante sentenza ( Cassazione Penale, Sez.IV, 1 ottobre 2013 n.40605) ce ne fornisce un ulteriore esempio, con riferimento in particolare alla formazione erogata ad un lavoratore straniero.
Nella fattispecie, il datore di lavoro di una cooperativa veniva condannato per l’inadeguatezza della “formazione fornita al lavoratore C.G. (impartita mediante due incontri di quindici minuti ciascuno)”
Premettendo che “due soli incontri di quindici minuti ciascuno sono insufficienti tenuto conto altresì degli argomenti trattati”, la Cassazione ricorda poi che il Tribunale correttamente “ha rilevato inoltre che sarebbe stato onere del D.P. [datore di lavoro, n.d.r.] accertare se le “procedure scritte” di movimentazione consegnate ai lavoratori fossero state comprese e recepite dagli stessi e in particolare da quelli stranieri, come il C.G., e a tale questione ha dato risposta negativa”.
Infatti, come ci ricorda un’altra nota pronuncia della Corte (Cassazione Penale, Sez.IV, 10 febbraio 2005 n.13251),“in tema di sicurezza antinfortunistica, il compito del datore di lavoro è articolato, comprendendo, tra l’altro, non solo l’istruzione dei lavoratori sui rischi connessi a determinati lavori, la necessità di adottare le previste misure di sicurezza, la predisposizione di queste, ma anche il controllo continuo, congruo ed effettivo, nel sorvegliare e quindi accertare che quelle misure vengano, in concreto, osservate, non pretermesse per contraria prassi disapplicativa, e, in tale contesto, che vengano concretamente utilizzati gli strumenti adeguati, in termini di sicurezza, al lavoro da svolgere, controllando anche le modalità concrete del processo di lavorazione.
Il datore di lavoro, quindi, non esaurisce il proprio compito nell’approntare i mezzi occorrenti all’attuazione delle misure di sicurezza e nel disporre che vengano usati, ma su di lui incombe anche l’obbligo di accertarsi che quelle misure vengano osservate e che quegli strumenti vengano utilizzati.”
Anna Guardavilla
Dottore in Giurisprudenza specializzata nelle tematiche normative e giurisprudenziali relative alla salute e sicurezza sul lavoro