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24.09.2018

Secondo un principio ripetutamente affermato nella giurisprudenza di legittimità, si legge in questa sentenza, ai fini dell’applicazione delle prescrizioni di sicurezza sui lavori in quota di cui all’articolo 122 del D. Lgs. n. 81/2008, rileva l’altezza alla quale si stanno svolgendo i lavori rispetto al terreno e non quella del piano di calpestio del lavoratore rispetto allo stesso. Torna ancora quindi la Corte di Cassazione e periodicamente a dare una nozione di “lavori in quota” che si ritiene errata o quantomeno non in linea con le disposizioni di legge in materia di salute e di sicurezza sul lavoro vigenti al momento dell’evento infortunistico oggetto del ricorso sul quale la stessa Corte è stata chiamata ad esprimersi. La sentenza merita quindi un commento a parte e più approfondito.

 

Una nozione dei lavori in quota analoga è stata già data dalla suprema Corte in occasione di altre sentenze della stessa Sez. IV, la n. 39024 del 20/9/2016 (u.p. 15/3/2016) commentata sul quotidiano del 20/2/2017 e la n. 42261 del 15/9/2017 (u. p. 27/4/2017) commentata sul quotidiano del 20/11/2017, nel pubblicare le quali lo scrivente ha già avuto modo di dire di non essere in linea con la suprema Corte, così come poche volte accade. Ebbene ora se ne aggiunge un’altra con la sentenza in commento e ancora una volta si conferma di non essere d’accordo sulla interpretazione che i giudici hanno dato sull’applicazione dell’art. 122 del D. Lgs. 9/4/2008 n. 81 sostenendo la continuità della disposizione in esso contenuta con quella dell’articolo 16 dell’abrogato D.P.R. n. 164/1956 e non tenendo conto della modifica che il D. Lgs. 3/8/2009 n. 106, correttivo ed integrativo del D. Lgs. n. 81/2008, ha successivamente apportata alla versione originale dell’articolo stesso. E’ il caso ora quindi di ripetere le stesse considerazioni formulate in occasione delle precedenti sentenze.

 

L’art. 16 del D.P.R. n. 164/1956, contenente le norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro nelle costruzioni, ebbe a disporre che "nei lavori che sono eseguiti ad un'altezza superiore ai m. 2, devono essere adottate, seguendo lo sviluppo dei lavori stessi, adeguate impalcature o ponteggi o idonee opere provvisionali o comunque precauzioni atte ad eliminare i pericoli di caduta di persone e di cose" e sulla interpretazione da dare al contenuto dell'articolo stesso si è molto discusso nel senso che ci si è sempre chiesti, considerato che il legislatore finalizzava l'applicazione della misura di sicurezza esplicitamente alla eliminazione "dei pericoli di caduta di persone o di cose", se per l'altezza di 2 metri era da intendersi la quota alla quale venivano effettuati i lavori, corrispondente sostanzialmente all’altezza delle posizioni delle braccia, o, come appariva più logico, quella dalla quale potesse cadere il lavoratore, corrispondente sostanzialmente a quella del piano di calpestio sul quale lo stesso opera e non senza un certo disagio considerato che lo scrivente nel corso della propria attività ispettiva era tenuto a vigilare sull’applicazione dell’articolo medesimo.

 

La Corte di Cassazione, chiamata più volte all’epoca ad interpretare la disposizione di cui all'art. 16 del D.P.R. n. 164/1956, si è espressa sostenendo prevalentemente che ciò che conta ai fini dell'applicazione di tale articolo fosse l'altezza alla quale si stavano svolgendo i lavori (fra tutte Cass. Pen. Sez. IV 7 giugno 1983, Cass. Pen. Sez. IV 4 agosto 1982, Cass. Pen. Sez. IV n. 741 del 25 gennaio 1982) e non anche quella del piano di calpestio sul quale si trova il lavoratore ma in realtà non sono mancate comunque delle espressioni da parte della stessa Corte di Cassazione di senso contrario.

 

Nel 2008 il D. Lgs. n. 81/2008 ha sostanzialmente riscritto con l’art. 122 il contenuto dell’art. 16 abrogato creando così una sorta di continuità normativa fra le vecchie e le nuove disposizioni sulla protezione dalla caduta dall’alto, così come messo in evidenza dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 39024 del 20/9/2016 della Sez. IV penale sopra indicata. Successivamente però nel 2009, c’è da far presente, il legislatore con il D. Lgs. n. 106/2009, forse proprio per dipanare i dubbi sorti sull’applicazione dell’art. 16 del D.P.R. n. 164/1996 e quindi sull’applicazione dell’art. 122 del D. Lgs. n. 81/2008, ha sostituita l’espressione “nei lavori che sono eseguiti ad un’altezza superiore ai m 2 devono essere adottate................”  che compariva nel testo originale con l’espressione nei lavori in quota, devono essere adottate......” per cui oggi non sussiste più alcun dubbio sul campo di applicazione dell’art. 122 del D. Lgs. n. 81/2008, che il legislatore ha voluto legare al lavoro in quota, definito esplicitamente dall’art 107 dello stesso D. Lgs. come l’”attività lavorativa che espone il lavoratore al rischio di caduta da una quota posta ad altezza superiore a 2 m rispetto ad un piano stabile”, e in presenza del quale è obbligatoria una protezione al fine di evitare la caduta dall’alto di persone o cose. Nessun dubbio sussiste più quindi anche sulle misure di protezione da adottare ogni qualvolta nel testo di tale decreto legislativo vengono citati i lavori in quota, così come accade nell’art. 115 sui sistemi di protezione individuali.

 

Quanto sopra non vuol dire comunque però che, nel caso di lavori per l’esecuzione dei quali un lavoratore venga a trovarsi su di un piano di calpestio di altezza inferiore ai 2 metri, come nel caso di cui alla sentenza in commento, non vadano adottate ugualmente delle misure di protezione dalla caduta dall’alto e non vuol dire quindi che tali lavori possano essere effettuati senza alcuna protezione. Nei lavori quali quelli appena citati, che, per distinguerli dai lavori in quota, possiamo definire come “lavori sottoquota”, non va applicato l’art. 122 del D. Lgs. n. 81/2008 ma altre disposizioni in materia di sicurezza sul lavoro di cui allo stesso decreto legislativo. Se, infatti, esaminiamo più approfonditamente le disposizioni dettate dal D. Lgs. n. 81/2008 in merito alle misure da adottare a protezione dalla caduta dall’alto, emerge chiaramente che lo stesso decreto legislativo nell’Allegato IV, contenente i requisiti che devono possedere i luoghi di lavoro, con una disposizione che è quindi applicabile a tutte le attività oltre a quella svolta nei cantieri edili, ha indicato esplicitamente al punto 1.7.3 che “le impalcature, le passerelle, i ripiani, le rampe di accesso, i balconi ed i posti di lavoro o di passaggio sopraelevati devono essere provvisti, su tutti i lati aperti, di parapetti normali con arresto al piede o di difesa equivalenti”. Il D. Lgs. n. 81/2008 non ha dato in realtà una definizione dei posti di lavoro o di passaggio sopraelevati ma per essa si può fare riferimento ad altre indicazioni fornite nello stesso decreto secondo le quali per posti sopraelevati si potrebbero intendere quelli situati ad una altezza superiore ai 50 cm dal suolo. Anche sulla definizione di posti sopraelevati, si fa osservare, si sono riscontrate in giurisprudenza per la verità diverse interpretazioni alcune del tutto inaccettabili tant’è che in una sentenza è stato ritenuto come posto di passaggio sopraelevato quello fatto su di una passerella posta ad una ventina di centimetri dal suolo.

 

Nella sentenza in commento la Corte di Cassazione ha quindi ribadita la sua posizione ritenendo corretta l’applicazione da parte dei giudici di merito del principio secondo cui, ai fini della applicazione della disposizione di cui all'art. 16 del D.P.R. n. 164/1956 (ora art. 122 del D. Lgs. n.81/2008) relativo alle prescrizioni riguardo ai cosiddetti "lavori in quota", si deve tenere conto dell'altezza alla quale si stanno svolgendo i lavori rispetto al terreno e non di quella del piano di calpestio del lavoratore. Nella stessa la Corte suprema presa forse dal dubbio sulla correttezza della interpretazione finora data e per tenere forse conto delle espressioni di senso contrario formulate in precedenza anche dalla stessa Sezione, ha confermata la condanna dell’imputato, già inflitta nei primi gradi di giudizio, indipendentemente dalla nozione di lavoro in quota, per una sua responsabilità per colpa specifica legata a una violazione di un altro obbligo di sicurezza quale quello di mettere a disposizione del lavoratore un cavalletto munito dei requisiti antinfortunistici, in applicazione dell’art. 2087 del codice civile.

 

Il fatto, la condanna e il ricorso in Cassazione

La Corte d'Appello, in riforma della sentenza del locale Tribunale e in accoglimento dell'appello proposto dalla parte civile, ha condannato il legale rappresentante di un’azienda per il reato di cui all'art. 590 cod pen, poiché per negligenza, imprudenza e imperizia, nonché per colpa consistita nella violazione dell’att. 122 del TU n. 81/2008 (non avendo provveduto ad adottare una adeguata impalcatura o ponteggio atto ad evitare la caduta delle persone) nonché dell’articolo 71 del medesimo TU (non avendo fornito al lavoratore attrezzature idonee ad eseguire le lavorazioni di cui era incaricato), ha cagionato a un lavoratore dipendente “lesioni consistite in 2 trauma craniofacciale con fratture multiple del massiofacciale e della teca cranica, con prognosi riservata" per essere caduto da un ponteggio provvisorio apprestato al fine di sistemare un tubo dell'acqua corrente che alimentava il bagno mobile delle maestranze operanti sul cantiere.

 

L’imputato ha ricorso per cassazione a mezzo del proprio difensore di fiducia, lamentando, con un primo motivo, un vizio di travisamento della prova in ordine alla ricostruzione fattuale dell'evento ed alla ritenuta violazione dell'art. 122 del D. Lgs. n. 81/2008. Secondo lo stesso, infatti, la Corte territoriale aveva travisato le risultanze istruttorie, costituite dal materiale fotografico allegato al ricorso, dal quale si evinceva con chiarezza che l'intervento dell'operaio non comportasse il superamento dell'altezza dei due metri, come previsto dalla citata normativa antinfortunistica. Dall'esame del materiale fotografico si poteva ben comprendere altresì che la lavorazione riferita dalla persona offesa (rialzare un tubo dell'acqua che era posizionato per terra dove dava fastidio) non corrispondeva a verità, dal momento che le foto in atti mostravano che il tubo era stato già rialzato da terra e che, pertanto, la caduta ben poteva ricollegarsi ad altre cause quali un semplice malore della persona offesa.

 

Con un secondo motivo il ricorrente ha lamentato carenza e contraddittorietà della motivazione, in relazione alla ritenuta sussistenza della sua penale responsabilità, posto che era risultato dimostrato che il giorno dell'infortunio non si trovasse sul cantiere e che l'ordine di eseguire la lavorazione era stato impartito da altro soggetto e precisamente da suo padre. 

 

Le decisioni in diritto della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha ritenuto il ricorso infondato. Quanto al primo motivo, con il quale il ricorrente si è lamentato del travisamento della prova e della conseguente erroneità della ritenuta violazione della normativa antinfortunistica relativa alle prescrizioni per i lavori in quota, la suprema Corte ha rilevato che “i giudici di merito hanno fatto una corretta applicazione del principio ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui, ai fini della applicazione della disposizione di cui all'art. 16 del D.P.R. n. 164/1956 (ora art. 122 del D. Lgs. n.81/2008) relativo alle prescrizioni riguardo ai cosiddetti "lavori in quota", è rilevante in concreto l'altezza alla quale si stanno svolgendo i lavori rispetto al terreno, e non quella del piano di calpestio del lavoratore”, citando la sentenza n. 43987 del 28/02/2013 della stessa Sez. IV che si era espressa in tal senso, per cui la stessa Corte nel caso in esame non ha rilevato alcun travisamento della prova.

 

La suprema Corte, inoltre, non ha rilevata nessuna palese difformità tra la lettura data dai giudici di merito alla documentazione prodotta e le conclusioni cui è giunta la sentenza impugnata. La Corte territoriale, infatti, valutando la documentazione fotografica che aveva ritratto il cavalletto ove era stato appoggiato il pianale sul quale era salita la persona offesa, ha dedotto che la lavorazione si stava eseguendo ad una altezza pari almeno alla misura della sopraelevazione del cavalletto da terra (ammontante, secondo le risultanze testimoniali esaminate dalla Corte ed oggettivamente rilevabili anche dalle foto, a circa 90 cm), cui doveva sommarsi la statura dell'operaio, raggiungendosi così certamente la quota superiore ai 2 m come stabilito dalla normativa antinfortunistica.

 

Accertata quindi la sussistenza di un addebito di colpa specifica, la Sezione IV ha tenuto a sottolineare la presenza anche di una colpa generica per avere messo a disposizione dell'operaio presidi del tutto privi dei requisiti antinfortunistici e per avere consentito che il lavoratore salisse su un pianale appoggiato in modo rudimentale su un cavalletto per cui, indipendentemente dalla prescrizioni specifiche imposte per le lavorazioni superiori ai due metri di altezza, ha riscontrata una violazione degli obblighi di sicurezza a garanzia della salute e della incolumità dei lavoratori, così come aveva rilevato esattamente la corte territoriale richiamando la clausola generale di cui all'art. 2087 cod. civ.

 

Con riferimento alla seconda motivazione, la stessa è stata ritenuta manifestamente infondata. Contrariamente a quanto prospettato dal ricorrente, infatti, la suprema Corte ha messo in evidenza che la sentenza impugnata aveva correttamente ravvisata la posizione di garanzia sia in base alle norme di legge, sia ai principi ripetutamente affermati dalla giurisprudenza di legittimità. Gli artt. 17, 18 e 19 del D. Lgs n.81/2008, infatti, individuano quali destinatari delle norme antinfortunistiche i datori di lavoro, i dirigenti e i preposti: pertanto, è la qualifica datoriale posseduta dall'imputato che pone, ai sensi della normativa citata, precisi e pregnanti obblighi di garanzia in ordine alla sicurezza sul lavoro. E' la qualifica di datore di lavoro che comporta, infatti, l'assunzione della posizione di garanzia in ordine all’applicazione e al rispetto della normativa antinfortunistica. L'espletamento di specifiche attività nei cantieri mobili da parte di altri soggetti (il padre dell'imputato nel caso in esame) lungi dal trasferire automaticamente la posizione di garanzia facente capo al datore di lavoro, può comportare l'assunzione anche in capo ai predetti soggetti degli obblighi imposti dal D. Lgs n. 81/2008; detti obblighi si cumulano comunque a quelli del datore di lavoro, senza certamente escluderli.

 

Per quanto sopra detto la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso e condannato il ricorrente alla refusione delle spese processuali nei confronti delle costituite parti civili che ha liquidate in €. 2.500,00.

 

 

Gerardo Porreca

 

 

Corte di Cassazione - Penale Sezione IV - Sentenza n. 39104 del 29 agosto 2018 (u.p. 3 maggio 2018) - Pres. Di Salvo – Est. Miccichè – Ric. F.M.. - Secondo un principio affermato in giurisprudenza, ai fini dell’applicazione delle norme di sicurezza nei lavori in quota, rileva l’altezza alla quale si stanno svolgendo i lavori rispetto al terreno e non quella del piano di calpestio del lavoratore.

 



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Articolo tratto da puntosicuro.it