28.06.2018
Come noto, la vigilanza spetta al preposto come “compito non esclusivo ma sussidiario, spettando anzitutto al datore di lavoro e ai dirigenti” (Cass. Pen. 23 luglio 1997 n.7245).
La legge pone infatti in capo al datore di lavoro e al dirigente l’obbligo penalmente sanzionato di “richiedere l’osservanza da parte dei singoli lavoratori delle norme vigenti, nonché delle disposizioni aziendali in materia di sicurezza e di igiene del lavoro e di uso dei mezzi di protezione collettivi e dei dispositivi di protezione individuali messi a loro disposizione” (art.18 c.1 lett.f) D.Lgs.81/08).
Fatta tale premessa, il punto di partenza dal quale prendere le mosse in materia di vigilanza, da tempo messo in luce dalla giurisprudenza, è che il datore di lavoro e i dirigenti “in ogni caso, quando non sia possibile assistere direttamente a tutti i lavori, devono organizzare la produzione con una ulteriore distribuzione di compiti tra i dipendenti in misura tale da impedire la violazione della normativa” (Cass. Pen., Sez. IV, 15 febbraio 1993 n.1345).
Così, una volta che abbiano provveduto ad incaricare un numero di preposti idoneo e a far sì che questi ultimi ricevano la formazione prevista dalla legge, datore di lavoro e dirigente devono vigilare sul fatto che i preposti - che in virtù di tale posizione di garanzia hanno gli obblighi penalmente sanzionati previsti dall’art.19 T.U. - vigilino correttamente e non tollerino prassi disapplicative.
La Cassazione è chiara su questo aspetto, costantemente ribadito nelle sentenze.
Guardando ai pronunciamenti più recenti, ad esempio, una sentenza di questo mese (Cass.Pen., Sez.IV, 8 giugno 2018 n.26294) ricorda che “il datore di lavoro deve controllare che il preposto, nell’esercizio dei compiti di vigilanza affidatigli, si attenga alle disposizioni di legge e a quelle, eventualmente in aggiunta, impartitegli;ne consegue che, qualora nell’esercizio dell’attività lavorativa si instauri, con il consenso del preposto, una prassi “contra legem”, foriera di pericoli per gli addetti, in caso di infortunio del dipendente la condotta del datore di lavoro che sia venuto meno ai doveri di formazione e informazione del lavoratore e che abbia omesso ogni forma di sorveglianza circa la pericolosa prassi operativa instauratasi, integra il reato di lesione colposa aggravato dalla violazione delle norme (Sez.4, n.18638 del 16/01/2004 - dep. 22/04/2004, Policarpo, Rv. 228344).”
Analogamente e in maniera ancora più specifica, poi, qualche anno fa la Cassazione Penale (Sez. IV, 10 febbraio 2011 n.5013) sottolineava che “qualora nell’esercizio dell’attività lavorativa sul posto di lavoro si instauri, con il consenso del preposto, una prassi contra legem, foriera di pericoli per gli addetti, il datore di lavoro o il dirigente, ove infortunio si verifichi, non può utilmente scagionarsi assumendo di non essere stato a conoscenza della illegittima prassi, tale ignoranza costituendolo, di per sé, in colpa per denunciare l’inosservanza al dovere di vigilare sul comportamento del preposto”.
Quest’ultima affermazione è coerente con l’attuale quadro normativo ed in particolar modo con una importante disposizione introdotta all’interno del testo unico nel 2009 da parte del decreto correttivo.
Non dimentichiamo infatti che l’art.18 comma 3-bis del D.Lgs.81/08 prevede che “il datore di lavoro e i dirigenti sono tenuti altresì a vigilare in ordine all’adempimento degli obblighi di cui agli articoli 19, 20, 22, 23, 24 e 25, ferma restando l’esclusiva responsabilità dei soggetti obbligati ai sensi dei medesimi articoli qualora la mancata attuazione dei predetti obblighi sia addebitabile unicamente agli stessi e non sia riscontrabile un difetto di vigilanza del datore di lavoro e dei dirigenti”.
Il che significa che, allorché il preposto tolleri prassi disapplicative e in conseguenza di ciò si verifichi un infortunio, datore di lavoro e dirigente potranno essere anch’essi responsabili dell’evento allorché non abbiano effettuato un’adeguata vigilanza in ordine all’adempimento dell’obbligo posto in capo al preposto di sovrintendere e vigilare ai sensi dell’art.19 c.1 lett.a) D.Lgs.81/08.
Alla luce della normativa e della giurisprudenza, dunque, risulta fondamentale che il datore di lavoro/dirigente, al fine di adempiere a tutti gli obblighi su richiamati, vigili sul fatto che il preposto a sua volta effettui una adeguata vigilanza sull’attività dei lavoratori.
Un esempio per tutti.
Con la sentenza Cassazione Penale, Sez.IV, 27 agosto 2014 n.36227, la Corte ha condannato per lesioni colpose gravissime a seguito di un infortunio, oltre al datore di lavoro, “il Br.Ro. che, quale responsabile della produzione e dello stabilimento, doveva garantire e vigilare sul rispetto delle norme di prevenzione infortuni; B.A. che, in qualità di preposto-capo reparto, avrebbe dovuto garantire la sicurezza delle operazioni di lavoro e pretendere il rispetto delle norme di sicurezza, senza avallare rischiose prassi di lavoro.”
In particolare, in questo caso, “dall’istruttoria svolta è emerso che dette regole [di prevenzione, n.d.r.] non erano scritte, ma si tramandavano oralmente tra gli operai, con l’avallo del caporeparto B.”
Dunque - sottolinea la Corte - “la prima condizione di pericolo creata dagli imputati è stata quella di avere avallato ed anzi previsto, contrariamente ad esplicite norme di sicurezza e regole di prudenza, che le operazioni di pulizia dei rulli avvenissero a macchinario in movimento.”
Con riferimento alle responsabilità del dirigente Br.Ro. e del preposto B.A., la sentenza conclude che “Br.Ro., preposto [responsabile, n.d.r.] al settore produzione, pur presente costantemente in stabilimento, non ha corretto le pericolose prassi relative alla pulizia dei rulli ed in ogni caso, come dirigente, ha omesso la dovuta vigilanza; il B., capo reparto preposto, ha consentito, avallato ed ordinato che la pulizia avvenisse con le pericolose modalità che sono state causa del grave incidente.”
I modi in cui la vigilanza sull’attività del preposto - così come la vigilanza più in generale - può essere esplicata sono vari.
Tale varietà è sottolineata dalla giurisprudenza stessa (Cassazione Penale, Sez.IV, 9 ottobre 2015 n.40719)allorché sottolinea che “sul piano modale, l’obbligo di vigilanza può essere adempiuto, quando la legge non ne preveda di specifici, in differenti modi, dovendosi optare per le forme che appaiono più adeguate allo scopo, nelle circostanze date.
Può certamente farsi ricorso, da parte del datore di lavoro, ad altro soggetto, al quale vengano delegate le particolari attività di vigilanza che siano state individuate come necessarie ed esorbitanti da quanto già insito nei doveri che la legge, in via originaria, pone in capo al dirigente ed al preposto.” E “ove non sia possibile tale delega, e le competenze, l’esperienza o altre circostanze rendano specificamente inadeguati i collaboratori del datore di lavoro, sarà questi a dover assicurare, se del caso anche con la presenza, l’osservanza delle disposizioni che garantiscono la sicurezza del lavoro.”
Al fine di effettuare una congrua vigilanza sull’attività del preposto potranno dunque essere ritenuti dal datore di lavoro e dal dirigente “adeguati allo scopo”, ad esempio, provvedimenti e misure di natura organizzativa e procedurale quali - a mero titolo di esempio - la richiesta di report da parte dei preposti, sopralluoghi, strumenti gestionali atti a far emergere eventuali prassi disapplicative nonché l’eventuale tolleranza delle stesse da parte di chi avrebbe l’obbligo di rimuoverle, azioni correttive di tale inerzia etc.
La scelta delle modalità più efficaci ed appropriate per effettuare tale vigilanza, ovviamente nella cornice di quanto previsto e consentito dalla legge, rientra nelle prerogative gestionali e organizzative del datore di lavoro e del dirigente.
Ciò che più di tutto ha importanza è che vi sia in coloro che gestiscono e organizzano l’attività lavorativa la consapevolezza di tale obbligo e del fatto che esso è concepito ormai dal legislatore e dalla giurisprudenza come un obbligo che deve essere adempiuto in maniera proattiva.
Questo perché, come ricordato da Cassazione Penale, Sez.IV, 16 gennaio 2004 n.18638, “è giurisprudenza pacifica di questa Corte quella secondo la quale gli obblighi che gravano sul datore di lavoro […] esigono che vi sia una positiva azione del datore di lavoro volta ad assicurarsi che le regole in questione vengano assimilate dai lavoratori e vengano rispettate nella ordinaria prassi di lavoro.
È infatti il datore di lavoro che, quale responsabile della sicurezza del lavoro, deve operare un controllo continuo e pressante per imporre che i lavoratori rispettino la normativa e sfuggano alla tentazione, sempre presente, di sottrarvisi anche instaurando prassi di lavoro non corrette.
Sotto tale ultimo profilo può richiamarsi un precedente di questa sezione secondo cui “In tema di prevenzione infortuni, il datore di lavoro, così come il dirigente, deve controllare acché il preposto, nell’esercizio dei compiti di vigilanza affidatigli, si attenga alle disposizioni di legge e a quelle, eventualmente in aggiunta, impartitegli. Ne consegue che, qualora nell’esercizio dell’attività lavorativa sul posto di lavoro si instauri, con il consenso del preposto, una prassi contra legem, foriera di pericoli per gli addetti il datore di lavoro o il dirigente, ove infortunio si verifichi, non può utilmente scagionarsi assumendo di non essere stato a conoscenza della illegittima prassi, tale ignoranza costituendolo, di per sé, in colpa per denunciare l’inosservanza al dovere di vigilare sul comportamento del preposto, da lui delegato a far rispettare le norme antinfortunistiche”.
Una massima giurisprudenziale - quest’ultima - che dunque ritorna a più riprese in giurisprudenza.
Come si può notare, in conclusione, l’atteggiamento “proattivo” richiesto al datore di lavoro (e al dirigente) in tema di vigilanza sull’attività dei lavoratori (ovvero la “positiva azione del datore di lavoro”) viene ricollegato dalla Corte di Cassazione alla vigilanza sull’attività del preposto, il quale, secondo la giurisprudenza stessa, è “un anello della catena organizzativa” chiamato ad “effettuare tale controllo che costituisce una delle attività più importanti tra quelle dirette ad evitare gli infortuni” (Cassazione Penale, Sez. IV, 21 aprile 2006 n.14192).
Anna Guardavilla