16.03.2018
In Italia la Corte Suprema di Cassazione è “al vertice della giurisdizione ordinaria” e tra le principali funzioni che le sono attribuite dalla legge vi è quella di assicurare ‘l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, l'unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni’. Inoltre una delle caratteristiche fondamentali della sua missione, “finalizzata ad assicurare la certezza nell'interpretazione della legge (oltre ad emettere sentenze di terzo grado) è costituita dal fatto che, in linea di principio, le disposizioni in vigore non consentono alla Corte di Cassazione di conoscere dei fatti di una causa salvo quando essi risultino dagli atti già acquisiti nel procedimento nelle fasi che precedono il processo e soltanto nella misura in cui sia necessario conoscerli per valutare i rimedi che la legge permette di utilizzare per motivare un ricorso presso la Corte stessa”.
È in questi termini che la Corte di Cassazione – cosiddetto giudice di legittimità - viene presentata sul proprio sito web in relazione alle sue funzioni. Funzioni che non sono in realtà quelle di entrare nel merito dei processi, ma per lo più di esaminare le questioni di diritto.
Tuttavia sono molte le pronunce della Cassazione in cui si sottolinea come a volte i rilievi della difesa svolgano prevalentemente “censure in punto di mero fatto, che non sono consentite in questa sede, non potendo la cassazione rivalutare il compendio probatorio in senso alternativo o diverso rispetto a quanto effettuato dal giudice di merito” (così ad esempio nella sentenza n. 48077 del 18 ottobre 2017).
Proprio per soffermarci su questo aspetto - al di là delle altre specifiche competenze della Cassazione - ci soffermiamo oggi su una breve sentenza – la Sentenza n. 3854 del 26 gennaio 2018 – in cui il ricorso presentato è dichiarato “vistosamente inammissibile”. E la sentenza riguarda anche un tema ricorrente: la responsabilità di un datore di lavoro e di un preposto per la caduta di due lavoratori.
Nella sentenza n. 3854 si indica che la Corte di appello di L'Aquila ha “integralmente confermato la sentenza emessa all'esito del dibattimento il 21 gennaio 2014 dal Tribunale di L'Aquila, appellata dagli imputati, con la quale G.Q. e G.L. sono stati condannati, il primo in qualità di datore di lavoro e legale rappresentante” della ditta XXX s.r.l., ed il secondo di preposto della stessa ditta, “per avere per colpa, consistita anche nella violazione di disciplina antinfortunistica, cagionato lesioni ad A.A. e a T.F.”, lavoratori dipendenti della XXX s.r.l., “precipitati a terra mentre effettuavano lavori di copertura provvisoria di una volta, posta a quattro metri dal piano sottostante”.
I fatti contestati erano stati commessi il 13 giugno 2009.
Riguardo al ricorso si segnala che “ricorrono tempestivamente per la cassazione della sentenza entrambi gli imputati, con un unico ricorso, denunziando promiscuamente erronea applicazione della legge penale sostanziale e contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione”.
Secondo i ricorrenti, infatti, la Corte di appello di L'Aquila, oltre ad avere richiamato giurisprudenza di legittimità che si stima inconferente (non pertinente) “ha escluso, ma illegittimamente ed erroneamente, la sussistenza di un'interruzione del nesso causale in relazione alla - segnalata - abnormità ed imprevedibilità della condotta dei lavoratori infortunati, senza, tuttavia, fornire al riguardo adeguata motivazione. La Corte territoriale ha valorizzato l'avere gli imputati, che pure avevano impartito agli operai direttive sul modo di condurre in sicurezza il lavoro di apposizione di teloni di copertura sulla volta, comunque consentito, di fatto, anche di salire pericolosamente sulla volta medesima” ma tale ragionamento – continuano i ricorrenti – “sarebbe illogico e contraddittorio, presupponendo, appunto, che gli imputati avessero in effetti impartito precise direttive di sicurezza”.
Né sarebbe dirimente l'ulteriore circostanza, sottolineata dai Giudici di merito, che “le vittime fossero impegnate in operazioni rientranti nelle loro attribuzioni, poiché anche in tale caso potrebbe profilarsi una condotta abnorme ed imprevedibile”.
E dunque risulta, in definitiva - ad avviso dei ricorrenti – “violato l'art. 41 cod. pen., che disciplina il nesso causale”.
Inoltre con esclusivo riferimento alla posizione dell'ing. G.Q., si evidenzia che quel giorno, ‘dopo aver dimostratamente impartito le specifiche disposizioni in materia di sicurezza e sulla modalità operative’ da seguirsi, “lo stesso si era legittimamente allontanato per seguire anche altri cantieri”.
In definitiva i ricorrenti domandano “l'annullamento della sentenza impugnata”.
Ricordiamo brevemente, perché citato dai ricorrenti in questa e in molte altre sentenze, il contenuto dell’articolo 41 del codice penale:
Art. 41. Concorso di cause.
Il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall'azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l'azione od omissione e l'evento. Le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l'evento. In tal caso, se l'azione od omissione precedentemente commessa costituisce per sé un reato, si applica la pena per questo stabilita. Le disposizioni precedenti si applicano anche quando la causa preesistente o simultanea o sopravvenuta consiste nel fatto illecito altrui. |
In questo caso la risposta della Corte di Cassazione ai ricorrenti è breve, in quanto il ricorso è considerato “vistosamente inammissibile, reiterando, in maniera aspecifica, assai generica e meramente assertiva, ed anche con richiami ad elementi di puro fatto, aspetti tutti già adeguatamente affrontati e risolti nella sentenza di appello”.
In ogni caso, continua la Cassazione, nella sentenza di appello “si evidenzia, in maniera congrua, quantomeno un'assoluta mancanza di vigilanza da parte degli imputati, entrambi in posizione di garanzia, omissione stimata causalmente collegata agli infortuni occorsi, esclusa l'abnormità o l' esorbitanza delle condotte delle vittime”.
Dunque, in definitiva, il ricorso è inammissibile “con condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di 2.000,00 euro in favore della cassa delle ammende”.
Tiziano Menduto
Scarica la sentenza da cui è tratto l’articolo:
Cassazione Penale Sez. IV – Sentenza 26 gennaio 2018, n. 3854 - Responsabilità di un datore di lavoro e di un preposto per la caduta di due lavoratori. Ricorso inammissibile