27.11.2017
E’ tornata la Corte di Cassazione, a distanza di un anno, a dare una nozione di “lavori in quota” che si ritiene errata o quantomeno non il linea con le disposizioni di legge in materia di salute e sicurezza sul lavoro vigenti al momento dell’evento infortunistico oggetto del ricorso sul quale la stessa Corte è stata chiamata ad esprimersi. Una analoga nozione dei lavori in quota era stata già data in occasione di un’altra sentenza della stessa Sez. IV della Corte suprema, la n. 39024 del 20/9/2016 (u. p. 15/3/2016) commentata sul quotidiano del 20/2/2017 (La nozione di lavori in quota e la protezione dal rischio caduta dall’alto), nel commentare la quale lo scrivente aveva avuto modo di affermare di non essere in linea con la suprema Corte, così come poche volte è accaduto. Ebbene se ne aggiunge un’altra perché non si è d’accordo sulla interpretazione che dai giudici, nella sentenza in commento, è stata data della disposizione sulla protezione dalla caduta dall’alto di cui all’art. 122 del D. Lgs. 9/4/2008 n. 81, giudici che ne hanno affermata la continuità con l’art. 16 dell’abrogato D.P.R. n. 164/1956, non tenendo conto della modifica allo stesso articolo 122 successivamente apportata dal D. Lgs. 3/8/2009 n. 106.
L’art. 16 del D.P.R. n. 164/1956, contenente le norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro nelle costruzioni, ebbe a disporre in particolare che "nei lavori che sono eseguiti ad un'altezza superiore ai m. 2, devono essere adottate, seguendo lo sviluppo dei lavori stessi, adeguate impalcature o ponteggi o idonee opere provvisionali o comunque precauzioni atte ad eliminare i pericoli di caduta di persone e di cose" e sulla interpretazione da dare al contenuto dell'articolo stesso si è molto discusso nel senso che ci si è sempre chiesti, considerato che il legislatore finalizzava l'applicazione della misura di sicurezza esplicitamente alla eliminazione "dei pericoli di caduta di persone o di cose", se per l'altezza di 2 metri era da intendersi la quota alla quale venivano effettuati i lavori, corrispondente sostanzialmente all’altezza delle posizioni delle braccia, o, come appariva più logico, quella dalla quale potesse cadere il lavoratore, corrispondente sostanzialmente al piano di calpestio sul quale opera lo stesso.
La Corte di Cassazione, chiamata più volte all’epoca ad interpretare la disposizione di cui all'art. 16 del D.P.R. n. 164/1956, si è espressa prevalentemente sostenendo che ciò che contava ai fini dell'applicazione dell’articolo stesso fosse l'altezza alla quale si stavano svolgendo i lavori (fra tutte Cass. Pen. Sez. IV 7 giugno 1983, Cass. Pen. Sez. IV 4 agosto 1982, Cass. Pen. Sez. IV n. 741 del 25 gennaio 1982) e non anche quella del piano di calpestio sul quale si trovava il lavoratore ma non sono mancate comunque delle espressioni della stessa Corte di Cassazione in senso contrario.
Nel 2008 con l’art. 122 del il D. Lgs. n. 81/2008 è stato sostanzialmente riscritto il contenuto dell’art. 16 abrogato creando così una sorta di continuità normativa fra le vecchie e le nuove disposizioni sulla protezione dalla caduta dall’alto, così come messo in evidenza dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 39024 della Sez. IV penale del 20/9/2016 sopra indicata.
Successivamente nel 2009 con il D. Lgs. n. 106/2009, correttivo ed integrativo del D. Lgs. n. 81/2008, il legislatore, forse proprio per dipanare i dubbi sorti sul’applicazione dell’art. 16 del D.P.R. n. 164/1996 e quindi dell’art. 122 del D. Lgs. n. 81/2008, ha modificato lo stesso articolo 122 sostituendo l’espressione “nei lavori che sono eseguiti ad un’altezza superiore ai m 2 devono essere adottate................” che compariva nel testo originario con l’espressione “nei lavori in quota, devono essere adottate......” per cui nessun dubbio sussiste oggi sul campo di applicazione dell’art. 122 del D. Lgs. n. 81/2008, che il legislatore ha voluto legare al lavoro in quota definito esplicitamente dall’art 107 dello stesso D. Lgs. come l’”attività lavorativa che espone il lavoratore al rischio di caduta da una quota posta ad altezza superiore a 2 m rispetto ad un piano stabile” e per il quale è obbligatoria una protezione al fine di evitare la caduta dall’alto di persone o cose. Nessun dubbio sussiste quindi sulle misure di protezione da adottare ogni qualvolta nel testo di tale decreto legislativo vengono citati i lavori in quota, così come succede nell’art. 115 sui sistemi di protezione individuali.
Quanto sopra non vuol dire comunque che, nel caso di lavori per l’esecuzione dei quali un lavoratore venga a trovarsi su di un piano di calpestio di altezza inferiore ai 2 metri, come nel caso in esame, non vadano adottate ugualmente delle misure di protezione dalla caduta dall’alto e non vuol dire quindi che possano essere effettuati senza alcuna protezione. Nelle situazioni quali quelle appena citate, che possiamo definire per distinzione come “lavori sottoquota”, non va applicato l’art. 122 del D. Lgs. n. 81/2008 ma altre disposizioni in materia di sicurezza sul lavoro di cui allo stesso decreto legislativo. Se, infatti, esaminiamo più approfonditamente le disposizioni dettate dal D. Lgs. n. 81/2008 in merito alle misure da adottare a protezione dalla caduta dall’alto, emerge chiaramente che lo stesso decreto legislativo nell’Allegato IV, contenente i requisiti che devono possedere i luoghi di lavoro, con una disposizione che è quindi applicabile a tutte le attività oltre a quella svolta nei cantieri edili, ha indicato esplicitamente al punto 1.7.3 che “le impalcature, le passerelle, i ripiani, le rampe di accesso, i balconi ed i posti di lavoro o di passaggio sopraelevati devono essere provvisti, su tutti i lati aperti, di parapetti normali con arresto al piede o di difesa equivalenti”. Per la nozione di posti di lavoro o di passaggio sopraelevati non esiste nel D. Lgs. n. 81/2008 una precisa definizione ma per essa si può fare riferimento ad altre indicazioni fornite nello stesso decreto secondo le quali per tali posti sopraelevati potrebbero intendersi tali quelli situati ad una altezza superiore ai 50 cm dal suolo.
Il fatto, il ricorso in Cassazione e le motivazioni
Il datore di lavoro di un’azienda ha ricorso in cassazione avverso la sentenza con la quale la Corte di Appello, in riforma della pronuncia assolutoria di primo grado, aveva dichiarata la sua penale responsabilità in ordine al reato di cui all'art. 590 cod. pen. per avere cagionato delle lesioni personali gravi a un dipendente dell’azienda stesa dalle quali è derivata una malattia guarita in 60 giorni, non esigendo che lo stesso indossasse il previsto elmetto protettivo, messogli a disposizione durante l'esecuzione dei lavori in un cantiere edile, e non contemplando, nel piano operativo di sicurezza, l'apprestamento dell'opera provvisoria su cui operava il lavoratore e dal quale, mentre smontava quest'ultima cadeva al suolo da un'altezza di m 1,87, privo del previsto l'elmetto protettivo,.
Con un primo motivo il ricorrente ha lamentato che la Corte di Appello non ha dato rilievo all’esistenza di una delega alla sicurezza rilasciata a un professionista amministratore di una società specializzata nella sicurezza ragione per cui non toccava a lui l'obbligo di verificare se un'opera provvisoria era contemplata nel piano operativo di sicurezza e se l'operaio, la mattina dell'incidente, indossasse o meno il casco, considerata anche la presenza, oltre che del delegato, anche di un coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione dell'opera. Lo stesso ricorrente ha sostenuto che non era neanche dimostrato che, al momento dell'infortunio, il lavoratore non indossasse il casco, poiché dai rilievi fotografici si evinceva la presenza di un elmetto protettivo rovesciato, che ben poteva essere quello in dotazione all'infortunato, il quale non ha mai chiarito questa circostanza e ha sostenuto che le perdite di sangue dalla nuca avevano evidenziato semmai un cattivo allacciamento dell'elmetto pur avendo il dipendente partecipato a corsi di formazione e pur essendo lo stesso sicuramente in grado di indossarlo correttamente. Non vi era prova altresì, secondo lo stesso, che l'opera provvisoria da cui era caduto il lavoratore non fosse prevista nel piano operativo di sicurezza, poiché mancava agli atti la copia dello stesso e comunque non era affatto certo che, se l'opera fosse stata prevista, con tutte le specificazioni del caso, il lavoratore non avrebbe compiuto ugualmente quella manovra che gli è costata la caduta.
Erroneamente inoltre, ha sostenuto il ricorrente, era stato ritenuto che si trattasse di lavori in quota, poiché il piano di calpestio era posto all'altezza di 1,80 metri e dunque non poteva affermarsi che i lavori fossero stati eseguiti ad un'altezza superiore a 2 metri. Ha sostenuto ancora che la Corte di Appello avrebbe dovuto applicare la diminuente del terzo della pena poiché il processo in primo grado si era svolto con rito abbreviato mentre nella sentenza non vi era traccia alcuna di tale diminuzione.
Le decisioni della Corte di Cassazione
Il primo motivo del ricorso relativo alla esistenza di una delega di funzioni non è stato accolto dalla Corte di Cassazione, La Corte di Appello, infatti, aveva chiarito, con motivazione esente da vizi logico-giuridici, che gli ufficiali di polizia giudiziaria operanti avevano attestato che non era emerso, durante le indagini, il rilascio di deleghe in materia di sicurezza sul lavoro né queste ultime erano state esibite, nonostante esplicita richiesta, in sede di sopralluogo.
Con riferimento poi alla presenza del casco protettivo i giudici avevano dato rilevanza alle dichiarazioni rese dal lavoratore infortunato il quale aveva riferito che, al momento del sinistro, calzava solo le scarpe antinfortunistiche nonché di tutti i testimoni escussi che avevano concordemente affermato che il collega, al momento dei primi soccorsi, non aveva l'elmetto. Le gravi lesioni patite al capo del resto, ha precisato la Corte di Appello avevano portato ad escludere, con ragionevole certezza, che la vittima avesse il casco. Il casco, infatti, era stato rinvenuto capovolto ad una distanza di alcuni metri dal posto in cui l'infortunato era stato soccorso e, considerata l'altezza, davvero modesta, dalla quale il lavoratore era caduto era decisamente poco verosimile che un elmetto regolarmente indossato potesse essere sbalzato così lontano, per effetto dell'impatto con il suolo. Per di più, tra gli indumenti dell'infortunato rimossi dal 118, in sede di soccorso, e rinvenuti dagli operanti, era presente un cappellino con evidenti tracce presumibilmente ematiche.
Per ciò che concerne l'assenza della previsione del ponteggio nell'ambito del piano operativo di sicurezza, i giudici avevano posto in rilievo che tale lacuna è stata riscontrata dal tecnico della prevenzione, il quale aveva riferito che la realizzazione della predetta opera provvisoria e le relative metodologie lavorative, poste in essere sulla struttura stessa, non erano state contemplate né nel piano operativo di sicurezza né nel piano di sicurezza e controllo. Il tutto del resto era stato confermato dallo coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione il quale aveva riferito che nulla era riportato nei predetti documenti in ordine alla realizzazione della struttura dalla quale era caduto il lavoratore. Di qui la conclusione secondo cui l'assenza di una specifica valutazione dei rischi riguardanti l'allestimento del ponteggio non aveva consentito di regolamentare la sua realizzazione, con l'individuazione di adeguate misure volte a salvaguardare l'incolumità fisica dei lavoratori. Se vi fosse stata una specifica determinazione delle metodologie lavorative da osservare e delle opere prevenzionali da adottare, l'infortunio, avevano concluso i giudici, non si sarebbe verificato.
Anche la motivazione legata alla nozione dei lavori in quota è stata ritenuta dalla Corte di Cassazione priva di fondamento. Si è infatti condivisibilmente ritenuto, in giurisprudenza, ha precisato la Sezione IV, che “l'altezza superiore a m 2 dal suolo, tale da richiedere le particolari misure di prevenzione prescritte dall'art. 122 del D. Lgs. n. 81 del 2008 (che ha sostituito l'art. 16 del D.. P. R. n. 164 del 1956, ponendosi però in continuità con esso), va calcolata in riferimento all'altezza alla quale il lavoro viene eseguito, rispetto al terreno sottostante, e non al piano di calpestio del lavoratore (Cass., Sez. 4, n. 43987 del 28-2-2013, Rv. 257693; Cass., n. 741 del 1982; n. 7604 del 1982; n. 5461 del 1983)”. Sotto il profilo giuridico, quindi, secondo la Corte suprema, non ha rilievo che il piano di calpestio fosse posto ad un'altezza inferiore a metri 2, se il lavoro si svolgeva ad un'altezza superiore. In questa prospettiva, la Cassazione ha osservato come la Corte d'appello avesse sottolineato che l'operaio lavorava a un'altezza tale per cui c'era il rischio, sia teorico che effettivo, che egli potesse cadere dall'alto, trattandosi di un lavoro da effettuarsi, ad operaio in posizione eretta, a oltre 2 m , ragion per cui il rischio di caduta era prevedibile e doverosamente evitabile, sia in via preventiva nel POS sia nel momento esecutivo
Fondato è stato invece ritenuto dalla suprema Corte l'ultimo motivo di ricorso essendo risultato infatti dalla sentenza impugnata che, in primo grado, il processo si era svolto con rito abbreviato. La stessa ha precisato in merito che, qualora la Corte di Appello pronunci una sentenza di condanna, in riforma della sentenza assolutoria emessa in primo grado, nell'ambito di un processo svoltosi con rito abbreviato, la stessa deve applicare la diminuzione di pena prevista dall'art. 442 cod. proc. pen. per cui erroneamente la Corte di Appello non aveva applicata la diminuente della pena. Trattandosi, comunque, di una determinazione di carattere obbligatorio, cui è estraneo ogni connotato di discrezionalità, ha così concluso la sezione IV, la predetta diminuente, nell'ottica delineata dall'art. 620, lett. I, cod. proc. pen., può essere applicata anche dalla suprema Corte e la relativa riduzione di pena, stabilità dalla legge in misura fissa, può essere effettuata anche in sede di legittimità, muovendo dalla pena irrogata dalla Corte d'appello (mesi 4 di reclusione) e diminuendola di un terzo.
La Corte di Cassazione in definitiva ha annullata la sentenza impugnata senza rinvio, limitatamente alla misura della pena, che ha quindi rideterminata in mesi 2 e giorni 20 di reclusione rigettando il ricorso nel resto.
Gerardo Porreca