30.03.2018
Come affrontare questi eventi pubblici? Come riuscire a tener conto nelle emergenze, anche nei luoghi di lavoro, del funzionamento mentale delle persone coinvolte?
Come rendere più efficaci i piani di emergenza e migliorare nel mondo del lavoro la percezione del rischio?
Per affrontare il tema delle emergenze e della percezione del rischio abbiamo intervistato Antonio Zuliani, fondatore della rivista “PdE – rivista di psicologia applicata all’emergenza, alla sicurezza e all’ambiente”, che si è occupato in questi anni – collaborando anche con il nostro giornale - dell’applicazione della psicologia al tema della sicurezza sul lavoro e della gestione delle emergenze.
Lo abbiamo intervistato durante la prima edizione del “Richmond HSE Forum”, che si è tenuto dall’8 al 9 marzo 2018 a Rimini, dove Zuliani ha tenuto un incontro dal titolo “Aiutare la mente in emergenza”.
L’intervista si è tenuta l’8 marzo e ha affrontato vari temi: dai modelli mentali che riguardano le emergenze alla qualità dei piani di emergenza elaborati in Italia, dalla necessità di una percezione del rischio più realistica all’importanza di un’idonea comunicazione delle emergenze anche in relazione alla salienza, alla rilevanza dei segnali d’allarme.
Nell’intervista, che vi invitiamo a visualizzare integralmente, si accenna anche ad una futura attività di ricerca, commissionata ad Antonio Zuliani, sulla percezione del rischio dei lavoratori stranieri.
L’intervista ad Antonio Zuliani
Come sempre diamo la possibilità ai nostri lettori di seguire integralmente la video intervista e/o di leggerne una parziale trascrizione.
Nella presentazione del suo incontro lei sottolinea come incidenti sul lavoro e gestione delle emergenze siano direttamente collegate al funzionamento mentale delle persone coinvolte. Ci dica qualche cosa su questi modelli mentali, sull’importanza di conoscerli e sulle conseguenze pratiche della conoscenza di questi modelli…
Antonio Zuliani: “É fondamentale conoscerli, a mio parere. In passato si è pensato che questi modelli mentali, ovvero la conoscenza dei comportamenti delle persone, fossero dei problemi, cioè che questi comportamenti fossero degli ostacoli da dover affrontare e quasi da dover condizionare, in qualche modo. Poi in realtà ci rendiamo conto che questi sono funzionamenti che se la persona mette in campo, c'è una ragione.
Ad esempio quando chiunque di noi impara un gesto, un'azione, non è che ogni volta ricostruisce il processo di apprendimento: lo fa diventare un’azione automatica, azione automatica che scatta perché qualche segnale gli fa comprendere che quella è l'azione che deve attivare.
Questa è l'azione che funziona benissimo nella maggior parte dei casi. In alcune circostanze però può darsi che questo stimolo faccia partire un’azione non idonea a quello che sta accadendo.
Questo è un problema di modello mentale di tipo strettamente cognitivo. Poi c’è anche l’aspetto più strettamente emotivo: ci sono delle percezioni del pericolo che dal punto di vista statistico potremmo considerare molto basse, ma che nel mondo in cui la persona vive sono considerate in modo molto elevato. (…) Cercare di spiegargli che matematicamente ha torto non funziona, perché nel suo cervello queste cose trovano uno stimolo di attivazione.
Quindi conoscere questi modelli permette a chi progetta il piano di emergenza o a chi interviene di trovare delle soluzioni che aiutano le persone non a contrastare quello che farebbero ma addirittura a utilizzare le spinte spontanee in una direzione positiva e non negativa…”
I piani di emergenza tengono conto oggi di questi modelli mentali? E qual è, a suo parere, la qualità dei piani di emergenza elaborati in Italia?
Antonio Zuliani: “La mia opinione è che nei piani di emergenza di questi modelli si tiene poco conto. I piani sono formalmente spesso ineccepibili, ma considerano che la popolazione che hanno di fronte sia una “media” popolazione con una “media” istruzione, una “media” cultura. Oggi non è così. Ma anche se potessimo pensare ad un modello funzionante, l'evoluzione dei modelli sociali attuali, è talmente veloce che probabilmente quello che noi pensavamo essere una percezione del rischio accettabile dieci anni fa, oggi non lo è più” (…)
Come migliorare la percezione del rischio nelle aziende? Lei nel suo incontro parlava, riguardo alla percezione, del rapporto tra possibilità e probabilità…
Antonio Zuliani: “La percezione del rischio della persona è nell'ambito della possibilità, non della probabilità. La probabilità è un dato matematico, numerico ma non rassicura le persone di non essere quell'unico caso che quell’impostazione matematica lascia scoperto come possibile effetto del danno. Chiunque di noi si pone dal punto di vista di essere sicuro di non essere lui quello colpito. (…)
Per capire qual è la percezione del rischio occorre partire dal concetto di possibilità. E se colgo qual è la possibilità percepita dalle persone, posso parlare di quell’oggetto, di quella vera preoccupazione. Se provo a contrastarla con dei numeri, rischio di non mutare l'atteggiamento, il comportamento delle persone. Questo lo diciamo noi nel campo della sicurezza, ma tutta la neuroeconomia ci dimostra esattamente la stessa cosa”.
(…)
Cosa possiamo poi dire riguardo all’importanza di un’idonea comunicazione nell’emergenza? Lei ne ha parlato più volte anche nella sua rivista…
Antonio Zuliani: “(…) Può accadere che un segnale d’allarme non venga percepito con idonea salienza non solo fisica, ma anche emotiva. Spesso quando pensiamo ai segnali, pensiamo alla salienza sonora del segnale, quella fisica. Ma c'è la salienza emotiva. Se io quel segnale non lo considero importante, perché sono in un luogo che vivo come rassicurante, tranquillo, probabilmente non risponderò a questo segnale.
Quindi la comunicazione deve comunque attivare la paura, che non è una brutta parola, è la prima reazione emotiva che spinge le persone a reagire, che deve dare un segnale di movimento. Ma la comunicazione deve anche dire che cosa fare.
Molto spesso le nostre comunicazioni in emergenza si limitano a segnalare la necessità di fare qualche cosa, presupponendo che le persone se lo ricordino. Ma noi sappiamo che è molto difficile recuperare un ricordo specialmente in un momento, emotivamente molto pregnante, come quello delle emergenze. E dire che cosa fare è importante. Molto spesso troviamo nelle comunicazioni che la prima richiesta è “stare calmi”. Ma se c'è una preoccupazione lo stare calmo è esattamente l’atteggiamento sbagliato per rispondere ad un pericolo.
Ma come posso chiedere una persona di agire in modo calmo? Soltanto dopo che l'ho rassicurato, che lui avrà qualcosa da fare e potrà farlo e questo lo metterà al riparo. Allora potrà farlo in modo calmo”.
Nel suo incontro lei ha parlato dell’utilità di “comunicare la sicurezza in modo disponibile e rappresentativo”…
Antonio Zuliani: “Significa che chiunque di noi, quando pensa a un pericolo, lo cataloga come pericolo perché quella cosa gli ricorda o qualcosa che ha vissuto o qualcosa che ben conosce. Questo è quello che noi indichiamo come idee euristiche della disponibilità e della rappresentatività, idee che spesso vengono viste come elemento negativo.
Possiamo però cominciare a immaginarle come elemento positivo.
Ovvero se io comincio a comunicare il problema della sicurezza attraverso qualche cosa che la persona sente che gli appartiene - quindi non qualcosa rivolto a un operaio generico, ma un operaio come lui, verso il quale identificarsi – ecco allora che la percezione diventa molto più facile. Diventa ancora più facile se noi accettiamo (…) che le notizie positive attivano una possibilità di cambiamento molto maggiore di quelle negative.
Quindi anche quando si parla di sicurezza bisogna cominciare a lavorare nel senso della promozione della sicurezza, piuttosto che nel cercare di ostacolare l'incidente. Perché in questo modo il nostro cervello è favorito nell'apprendimento del cambiamento”.
Articolo e intervista a cura di Tiziano Menduto